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R Recensione

7/10

Miriodor

Signal 9

La bandiera del Rock in opposition sventola ancora con orgoglio dalle parti del Canada, dove i Miriodor, alfieri di un progressive jazz rock  fieramente non convenzionale, rispolverano con gusto aggiornato e miscela autoctona la filosofia avant garde di gruppi come Henry Cow, Art Zoyd e Univers Zero, fra i promotori del movimento nato verso la fine degli anni settanta.  In vita dal 1986 l’ensemble canadese non dava segnali dal 2013, anno di pubblicazione di “Cobra Fakir”: come quasi tutti i predecessori, il nuovo “Signal 9” esce per Cuneiform, e la scelta dell’etichetta anticipa già molto circa il  tasso di eccentricità e libertà creativa che è lecito attendersi dalla musica ivi contenuta. L’impressione è quella di un meccanismo ad orologeria, dove la miriade di minuscoli ed inusitati ingranaggi si combinano alla perfezione per creare miniature sonore che lasciano stupefatti al primo ascolto e richiedono dedizione ripetuta per un tentativo di decodificazione. 

Qua e là si possono cogliere epigoni del gusto di Zappa per i collage sonori, o echi provenienti dal pianeta Magma o dalla corte di  King Crimson, ma la cifra del lavoro curato da Bernard Falaise (chitarre), Pascal Globensky (tastiere), Rémi Leclerc (batteria) e Nicolas Lessard (basso) spicca per la capacità di costruire con cura certosina ed alto tasso di perizia strumentale universi sonori basati sull’imprevedibilità. Provare a descriverli è un esercizio che assomiglia molto ad un rompicapo. Un riff progressive di chitarra ed organo irrompe nell’iniziale “Venin”, subito smentito da sezioni più rarefatte, e da una pluralità di altre frasi strumentali che spuntano come creature aliene svegliate dal nostro passaggio uditivo, sviluppate in una progressione del tutto libera da convenzioni di genere e struttura. La seguente "Peinturé dans le coin" prevede una articolata trama chitarristica che si fraziona  in un muscolare groove condotto dal basso e dalle tastiere, per poi evolvere in un sipario basato su quella che pare una marimba e quindi tornare al punto di partenza con le tastiere a raddoppiare il ruolo della sei corde. E si prosegue così, fra il funk elettronico ed alieno di "Transit de nuit à Jakarta", l’alternanza fra i perentori riff crimsoniani e la musica da… circo di "Portrait-robot", il crash fra elettronica scura e leggero interplay jazzistico di “Chapelle lunaire”, l’intricato ed angolare cunicolo chitarristico di “Passage secret”, dal quale si intravedono pianure post rock, la ribollente superficie di "La ventriloque et le perroquet," che si increspa in un surreale valzer prima di lasciare spazio ad un collage di voci e suoni alieni. In una girandola inarrestabile di ritmi, melodie, tesi ed antitesi musicali che potrebbero riempire tre o quattro capitoli discografici di una band “normale”. 

Tutto sembra possibile nel pianeta Miriodor e la caleidoscopica miscela è servita da abbondanti dosi di humor, come un raffinato  e stralunato cartoon sonoro. Come suggerisce il comunicato di accompagnamento del disco, una volta che la musica tace e si torna alla vita di tutti i giorni, l’impressione è quella di svegliarsi da un incubo con la febbre alta. Sicuramente storditi e, si potrebbe integrare, con la voglia di approfondire la conoscenza con una band che non conosce la parola confine.

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Utente non più registrato alle 15:51 del 13 giugno 2017 ha scritto:

MIRIODOR + YUGEN, 22 settembre, Casa di Alex Milano.