Muse
The Resistance
Esce il nuovo disco dei Muse e dopo averlo ascoltato non posso non ripensare al mio vecchio coinquilino Marco Pica. Per il suo cognome a volte lo pigliavamo per il culo con penosi giochi di parole come Pica-ciù! ma essendo egli ribattezzato anche Black Macigno (un po’ per la stazza e rozzezza nel ruolo difensivo a calcetto, un po’ per le simpatie destroidi) si stava bene attenti a non esagerare buttandola sempre su una contenuta giovialità.
Ma perché mi viene in mente il caro Pica? Perché musicalmente aveva tre passioni principali: i Dream Theater, gli Yes e i Muse. Progressive a manetta insomma, e in questo quadro vien da dire che in fondo in fondo i Muse all’epoca erano un po’ l’anomalia sonora del mio coinquilino, che nonostante certi barocchismi di fondo li si poteva ancora emancipare dalla turpe congrega di rockettari sparapippe di una volta. Invece pare proprio che con The Resistance il cerchio si chiuda, e stavolta una volta per sempre.
Se Black holes and revelations lasciava ancora intravedere alcuni sprazzi di lucidità e si salvava a mio modesto parere per le notevoli parti strumentali nonché per una certa autoironia di fondo (ve lo ricordate quel video fanta-western di Knights of Cydonia?) The Resistance perde clamorosamente il confronto, con l’ennesima svolta che pare il segnale di una netta perdita di senno e lucidità. Il problema più grosso è sempre lo stesso, in via sempre maggiore dai tempi del discreto Absolution: la voce di Bellamy. Bella per carità, ma totalmente incapace di tenersi a freno, di misurarsi, talmente invadente ed esuberante da togliere spazio alla base strumentale che per la prima volta sembra mostrare una drammatica crisi di idee e inventiva.
Le conseguenze di tutto ciò sono una serie di tremendi pastiches sonori ora all’insegna della rielaborazione passatista ora del barocchismo più ridondante e molle. E dire che il disco non inizia del tutto male con l’elettro-pop suadente di Uprising, a metà tra la decadenza glam di Bowie e un groove tamarrissimo che diverte facendo passare in secondo piano una certa mediocrità di fondo. Sensualità e ‘80s sono più o meno gli stessi elementi che si ritrovano in Undisclosed desires, brano in cui si tenta una difficile conciliazione delle intense atmosfere alla Depeche Mode con lussuriosi sprazzi di rhythm’n soul.
A questa manciata di mediocrità si contrappone l’imperioso prog-rock sinfonico di Resistance, che apre il revival dei Queen intrapreso per l’occasione dal gruppo. Dei brani “contaminati” questo è senz’altro il migliore, grazie ad una base sonora massiccia e imponente che si accompagna a un cantato particolarmente ispirato. Completamente diverso il risultato in United States of Eurasia (+ Collateral damage),incredibile plagio (non venite a parlare di omaggio per piacere) della Bohemian Rhapsody dei Queen, cui vengono aggiunte fantasie armoniche arabeggianti, un delirante sottotesto orwelliano ed escursioni pianistiche romantico-ottocentesche. A tratti compare perfino la chitarra di Brian May, la quale ricompare nettamente pure nell’assolo centrale di Guiding light, tremendo pastone che peraltro rubacchia l’attacco iniziale, l’incedere ritmico e l’amore per i synth alla Vienna degli Ultravox.
Arrivati al giro di boa la situazione non pare migliorare eccessivamente: Unnatural selection basa sette minuti su un groove zarro, atmosfere da noir-blues scadente e su un concentrato di vocalismo eccessivo. MK Ultra parte con un buon piglio elettrico ma poi ammorba per l’incostanza e la già più volte ricordata invadenza di Bellamy. Nel momento in cui si esce dal clima epico ecco che l’aria torna a essere respirabile, così il giochino rétro di I belong to you appare simpatico ed elegante. Bellamy riesce a trattenersi e a non danneggiare troppo la dolcezza dello spezzone orchestrale di Saint-Saens.
Il finale Exogenesis è probabilmente l’operazione più ambiziosa: una suite sinfonico-orchestrale divisa in tre parti in cui far emergere sonorità rock decadenti. E c’è da dire che l’Overture è davvero notevole per l’ariosità della sua sezione strumentale, purtroppo rovinata dall’appoggio non richiesto di un cantato ampolloso e artificiale. Meglio sarebbe stato lasciar galoppare la fantasia strumentale da sola, così come meglio sarebbe stato astenersi dall’intervenire in Cross-pollination, la cui soave classicità è devastata dalla brusca accelerazione decisamente fuori tono. Stesso discorso per Redemption che però nella sua semplicità è forse la cosa migliore del disco: un piccolo esercizio Schubert-iano che addolcisce un po’ l’animo dello scribacchino, anche se non riesce a procurare una completa redenzione per un disco opaco, esagerato, fuori calibro, in cui nessun tassello sembra perfettamente incastrato nel puzzle generale dell’album.
Tanti errori di valutazione, produzione e composizione segnano un brusco stop artistico per i Muse, che forse riusciranno a vincere commercialmente ancora una volta grazie alla facile presa dei motivi pro-Queen ma non eviteranno questo giro di essere messi sullo stesso pericoloso piano di altri “mostri sacri” come Dream Theater e Yes. Sono sicuro che a Pica piacerà anche questo disco. Un motivo in più per sfotterlo con soprannomi idioti.
Sito: http://muse.mu/ Myspace: http://www.myspace.com/muse Video: Mini-Preview all tracks - http://www.youtube.com/watch?v=QKA8BAavoE8&feature=related Uprising - http://www.youtube.com/watch?v=8EtkuHzBVFM United States od Eurasia (+ Collateral Damage) - http://www.youtube.com/watch?v=0Ok0expLH1o&feature=related
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