R Recensione

8/10

Quatermass

Quatermass

Introdotto da una geniale e inquietante grafica in bianco e nero dello storico studio Hipgnosis, l’esordio e contemporaneo epitaffio dei Quatermass è uno dei notevoli, superbi prodotti dell’annata rock 1970, ben distinguibile al tempo ed ancor oggi a forza di una peculiare alchimia musicale, creata da una formazione a trio tastiere/basso/batteria alle prese con un rock sensibilmente più legato all’hard ed al blues, che al logico e prevedibile progressive di stampo Nice/Emerson Lake & Palmer.

Neanche una nota di chitarra quindi in quest’album, ma il tastierista del gruppo Pete Robinson è abile ad ovviare a ciò, arrangiando pianoforte ed organo con suoni potenti e distorti, surroganti rispettivamente i dinamici “staccati” ed i dilatati power chords tipici del genere hard, di solito appannaggio di una buona chitarra elettrica debitamente super amplificata.

La formazione è poi completata dal batterista Ian Underwood (bello pestone, come il rock pesante richiede, ma anche tecnico) e dal bassista e cantante John Gustafson, dotato pur esso degli attributi indispensabili al genere e cioè fiato e gola belli generosi, per poter urlare tutto il tempo nel microfono senza problemi.

L’opener “Entropy” è un breve e sommesso lamento d’organo, introduttivo al trascinante hard/pop di “Black Sheep Of The Family”, per la cronaca assurto qualche anno dopo a pietra dello scandalo in una delle tante rivoluzioni interne ai Deep Purple: Ritchie Blackmore voleva assolutamente coverizzare il brano per l’album “Stormbringer” (1974), i suoi cantanti di allora Coverdale e Hughes si rifiutarono di interpretarlo e fu così che il chitarrista si decise a mollare il gruppo. La canzone è in effetti notevolmente purpleiana, quel tipo di hard accessibile e trascinante che farà di lì a poco la fortuna di Ian Gillan e soci, ma non è affatto scontato quale dei due gruppi abbia preso e quale abbia dato, essendo in effetti “Quatermass” perfettamente contemporaneo a “Deep Purple In Rock”!    

Seguono i quasi dieci minuti del dilatato blues “Post War Saturday Echo”, uno dei vertici dell’opera: dopo una falsa partenza costituita da una galoppata progressive stile Nice, Underwood smette di martoriare tom e timpani e passa a sfiorare ride e rullante, impostando le dodici battute canoniche su un tempo lentissimo. Le note profonde del basso ed il tenue tappeto della tastiera inferiore dell’Hammond lasciano enorme spazio agli urli strascicati di Gustafson, che declama con veemenza, a tratti scomposta, il suo testo amaro e antimodernista. Nel ritornello, inevitabilmente, vanno ad esplodere tutti gli strumenti, fornendo grande resa dinamica ed emotiva, col bassista che si sgola letteralmente per sovrastare i turgidi accordi di Hammond a manetta e le esplosioni di cassa e piatti.

La seconda strofa è invece “cantata” dal pianoforte, in assolo delizioso, ben ispirato nella sua ricerca leggermente atonale e dalla resa autenticamente spettrale e drammatica; il suo fraseggio viene alfine spazzato via dalla ripetizione del potentissimo inciso, che stavolta però si risolve in un intermezzo progressive, nuovamente in stile Emersoniano. C’è spazio infine per una terza strofa cantata e per un’ultima scheggia progressive, a drastica chiusura di un pezzo della madonna, lungo e meritevole.

La successiva “Good Lord Knows” è una ispirata melodia di Gustafson che il suo tastierista arrangia con proprietà e somma abilità, accompagnandolo con un suono di clavicembalo e soprattutto scrivendo le partiture e dirigendo una sontuosa orchestra d’archi, 31 professori riuniti nell’enorme e storico studio 1 di Abbey Road per quello che è l’episodio più progressive dell’album, del tutto a contrasto con ciò che segue.

Arrivano infatti nuovamente due hard rock secchi, diretti e di sapore purpleiano. Nel primo di questi “Up On The Ground” Robinson sovraincide due diverse partiture di Hammond distorto per ricreare con successo riffoni molto spessi, di sapore chitarristico. Nel secondo “Gemini” risulta invece sorprendente la somiglianza delle pause di organo liturgico, fra una strofa e l’altra, con la celebre introduzione di Jon Lord nella mitica “Speed King” (da “Deep Purple In Rock”). Anche qui il quesito è amletico: è Robinson ad aver preso l’idea da Lord, o è piuttosto il contrario? I due gruppi ovviamente si conoscevano più che bene, appartenendo alla stessa etichetta ed inoltre c’è il fatto che Underwood, Ian Gillan e Roger Glover avevano suonato insieme per anni, fino a poco tempo prima, negli Episode Six.

Le due suites che seguono assumono giocoforza connotati decisamente progressive. Nella prima “Make Up Your Mind” Gustavson armonizza più volte la sua voce, creando inevitabili reminiscenze Vanilla Fudge (gruppo al tempo fra i più stimati e influenti), poi Robinson indugia in una fase free form, che rimanda alla lunga introduzione della purpleiana “Lazy” (beninteso: quest’ultima appartenente a quel “Machine Head” che uscirà solo due anni dopo… veramente intrigante questo parallelismo nel lavoro di sviluppo sull’Hammond di questi due grandi organisti!). L’improvvisazione sfocia in una jam session corale, nella quale si incrociano e vengono al proscenio via via organo, piano elettrico ed acustico, fino alla conclusione con la riproposizione del cantato corale dell’inizio.

La seconda suite, la strumentale “Laughing Tackle”, supera i dieci minuti e sfoga tutte le voglie progressive di Robinson. Inizia con un giro di basso sul quale vanno a jammare il consueto Hammond distorto e qualche altra tastiera alla maniera dei Nice, ma ben presto entra l’orchestra, costretta spesso nell’occasione a partiture stravaganti e psichedeliche, fatte di ondeggiamenti, crescendo interminabili, studiati fuori tono. D’altronde la scia di album come “Sgt. Pepper” e di canzoni come “A Day In The Life” (creata in quello stesso studio tre anni prima) era al tempo ancora vivida, Robinson ci dà dunque dentro fino in fondo e crea in libertà il suo brano esagerato e prolisso, pieno di variazioni di ritmo e di atmosfera, anticommerciale ed egocentrico, sborone, teneramente anni ’70 anche per la presenza di un temibile assolo centrale di batteria. Molto bravo Underwood, ma inevitabilmente noioso.

Una brevissima ripresa del prologo “Entropy” chiude la scaletta dell’LP; nella ristampa in CD sono state aggiunte due bonus tracks, scarti delle registrazioni del tempo ed in quanto tali tutt’altro che indispensabili. Il primo “One Blind Mice” è nuovamente un hard rock, senza troppe pretese, il secondo “Punting” poco più di una jam session in studio fra i tre strumentisti.

Insomma, adeguato mito ma poca fortuna commerciale e soprattutto e malauguratamente nessun seguito per questa specie di fratellastro di “Deep Purple In Rock”. Mancò evidentemente molto ai Quatermass in termini di fiducia, coesione e perseveranza, e questo ad onta dei buoni responsi della critica che consigliavano di insistere e cercare di migliorarsi ulteriormente. I tre ottimi musicisti si dispersero invece in mille altri progetti, incrociando nuovamente le loro carriere coi Deep Purple e con tanti altri (sia Gustafson che Underwood suonarono per Ian Gillan, a cavallo fra i settanta e gli ottanta, Robinson suonò anche fusion nei Brand X di Phil Collins).

Nel 1990 è uscito “Long Road” un album a nome Quatermass II, col solo membro originario Underwood in formazione (ed anche con Nick Simper, primo bassista dei Deep Purple… i magnifici perdenti che ogni tanto provano ad allearsi…): niente da fare, nulla di interessante. “Quatermass” resta un una tantum, ma di quelli buoni, che avrebbero meritato di lanciare una carriera importante.

 

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 5 voti.
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REBBY 6/10

C Commenti

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swansong (ha votato 8 questo disco) alle 16:56 del 21 gennaio 2009 ha scritto:

Vedi Pier...

...stai continuando a scardinare la mia vinil-cd teca! Altra opera di notevolissimo spessore splendidamente, come al solito, analizzata e contestualizzata (in effetti, in alcuni frangenti e passaggi melodici, i Quatermass nulla avevano da invidiare a ben più "ruffiani" Deep Purple, che cmq dalla loro vantavano, forse, un maggior tasso tecnico). Tuttavia, vado a memoria perchè è da molto che non lo ascolto, il disco in questione mi è sempre parso un pò troppo disomogeneo, poichè tenta, a tratti, di dire più di quello che occorre...non sò se mi spiego. Troppa carne al fuoco, insomma, troppo dispersivo. Ma sono chiacchere che scompaiono di fronte al valore di quest'opera che, "oggettivamente", rimane senz'altro elevato, ma non di primissimo piano se "relativizzato" all'incredibile ondata di capolavori che hanno visto la luce in quegli anni (e nel 70 in particolare)

claudio 4650 (ha votato 10 questo disco) alle 19:05 del 12 agosto 2009 ha scritto:

quatermass

L'ho comperato appena uscito (la copertina...) e tuttora non mi stanco di ascoltarlo.E immortale!

Utente non più registrato alle 13:49 del 9 novembre 2012 ha scritto:

Uno dei migliori esempi di rock progressivo con formazione a tre senza chitarra, che non ha nulla da invidiare alle uscite contemporanee.

Notevole la padronanza strumentale e il dinamismo esecutivo.

Utente non più registrato alle 19:12 del 14 novembre 2012 ha scritto:

...per la cronaca, Pete Robinson nel 1971 diede il suo apporto nell'ottimo, ma poco conosciuto "Second Contribution" di Shawn Phillips, senz'altro da ascoltare.