Roger Waters
Amused To Death
Il messaggio codificato da Roger Waters in quest’album mostra ancor oggi la sua totale attualità e urgenza: la merda televisiva che ci invade e ci ricopre, le guerre raccontate come videogames asettici, l’individuazione ed il perseguimento, da parte della casta più avida e cattiva e volgare del genere umano, delle debolezze e della pigrizia della gente comune, disponibile pertanto a farsi sommergere di bugie, false promesse, finti attrezzi di benessere, finti mondi paralleli e superficiale e ipocrita analisi dei propri problemi, pur di “starsene in pace” e non dover mettere in azione il cuore e il cervello.
Dalla sua posizione di miliardario incazzato, molto incazzato, Waters sperpera montagne di soldi (anche suoi) nella realizzazione, maniacalmente perfetta ed allo stesso momento opprimente e scomoda, di opere di denuncia dalla sublime densità concettuale, arguzia ed intelligenza immaginifica, raffinata e creativa poetica. Opere che finiscono per avere scarsa diffusione, quando invece dovrebbero essere conosciute da tutti, al di là del loro relativo, tarpato fascino musicale.
Waters infatti, tanto preso dall’eruttare copiosamente righe e righe di testo declamandole, sbraitandole, sussurrandole colla sua afona e scomoda voce, finisce immancabilmente con l’affossare buona parte della musicalità, dell’armonia, in definitiva dell’accessibilità di ciò che suona e canta. È un percorso le cui avvisaglie si erano intraviste sin da “Animals” (1977), da lì in poi mai più rinnegato.
Il risultato è che c’è un solo modo per godersi i progetti di questo musicista: mettersi di buzzo buono ad ascoltarne uno dall’inizio alla fine, possibilmente in cuffia e testi alla mano, senza rigorosamente fare altro (metter su un disco di Waters mentre si chiacchiera, o si cucina, o si lavora non è proprio caso, non rimane niente di niente).
La ricompensa vale l’impegno (almeno nel mio caso): “Amused To Death” in particolare risulta essere a mio parere la migliore delle sue uscite soliste. Intanto perché gli argomenti trattati sono quanto di più vivo e attuale e inquietante e irritante vi sia, e poi perché vi sono un paio di frecce al suo arco, in senso musicale vivaddio, che la rendono vivida e spettacolare.
La prima di esse è il suono: splendido, supremo. Voce, strumenti ed inserti effettistici (tantissimi, come consuetudine) sono catturati, missati e resi con una qualità celestiale. Fossi un venditore di impianti stereo, questo sarebbe il mio disco dimostrativo. C’è poco da aggiungere e molto da meravigliarsi per questa produzione rigogliosa e superlativa, fonte di infinite scoperte anche dopo ripetuti ascolti.
La seconda freccia si chiama Jeff Beck. Ingaggiato su sette delle dodici canzoni, il maestro è libero di far cantare la sua chitarra guizzante e geniale, distribuendo ciliegine prelibate di intuito ritmico e melodico come nessun altro è capace al mondo. Il chitarrista vivente più immaginifico e creativo che ci sia ci sta proprio bene nell’album di uno dei liricisti per antonomasia. Le “cantate” di Beck colla sua Stratocaster iniettano grandi dosi di musicalità ad un’opera inevitabilmente greve come la personalità del suo autore, nonché a rischio continuo di collasso melodico. Da brividi ogni suo intervento, ogni suo tocco, ogni suo suono.
Personalmente ritengo questo il miglior lavoro della serie “Pink Floyd e derivati” posteriore a “The Wall” (1979). Settantadue minuti di verbosissima e sublime denuncia sociale, rivestita di un suono meraviglioso, addobbata con una chitarra quasi parlante. Non si può dare il massimo dei voti perché la musica soffre continuamente l’invadenza asfissiante delle liriche e dell’interpretazione pesante di Waters (che non ci pensa quasi a cantare, preferisce sussurare, parlare, declamare, urlare...). Ma è un’opera nobile e intellettiva, da affrontare ogni tanto quando si ha abbastanza energia e curiosità e consapevolezza e rispetto di se stessi.
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