R Recensione

8/10

Vangelis

Heaven and Hell

Ci troviamo sul finire del 1975 e Vangelis pubblica questo disco che rappresenta la sua prima grande occasione di visibilità, nonché il primo successo. Non molto tempo addietro pare abbia opposto un rifiuto all’offerta da parte degli Yes di entrare a far parte del gruppo in sostituzione di Rick Wakeman. Ci si trova ancora in un periodo nel quale le opere concept ottengono credibilità e vendite, così come i brani con durate di una facciata intera o persino quelli che si sviluppano lungo tutto l’LP.

La copertina ha le due facciate occupate da immagini simili: due mani alate che stanno per posarsi su di una tastiera. In una i colori danno l’idea del cielo azzurro, le mani paiono di cristallo e il disegno nitido. Nell’altra, la più nota, le tinte sono giocate sull’arancione acceso e tutto l’insieme è caratterizzato dal disegno di un forte fumo che rende sfocati i soggetti presenti e dà l’idea di un fuoco. Nell’insieme i dipinti sono suggestivi. Il disco è suddiviso in parte I e II, a loro volta con alcuni brani.

La composizione, la produzione e l’esecuzione di ogni strumento sono di Vangelis, tranne le partecipazioni di Vana Veroutis come voce femminile e soprattutto del cantante degli Yes Jon Anderson che scrive e canta l’unico brano con un testo comprensibile in quanto il rimanente sono canti di vocalizzi, sillabe o parole usate solo per il suono che producono indipendentemente dal significato. Da notare anche la non indifferente presenza del coro English Chamber Choir. La registrazione viene effettuata inaugurando i nuovi Nemo Studios, all’epoca la sala personale dell’artista a Londra. I titoli dei brani dell’edizione italiana curiosamente sono differenti da quelli dell’edizione originale.

            Si tratta di un’opera ambiziosa, dove l’uso delle tastiere, delle percussioni e del coro sono vistosi e incisivi, con un’orchestrazione che sviluppa semplici temi di poche note, con ripetizioni simili e con variazioni, caratteristiche queste che si ritrovano con frequenza nella discografia del tastierista. Sin dall’apertura di Riff Thing, primo pezzo, si evidenzia tutto ciò, con il sintetizzatore che espone in solitudine un tema possente per poi essere ripreso dal coro, dall’ensamble con maggiore dinamismo e ancora dal coro che si inserisce brevemente insieme al pianoforte. L’esposizione viene replicata più volte. Nel secondo, propriamente Heaven and Hell, un attacco pianistico e di tastiere con una forte indole percussiva e rapsodica viene anche questo ripetuto con piccole variazioni dal coro misto e da altri strumenti. I brani si giocano sulla dinamica e gli accostamenti timbrici a tinte forti.

L’insieme rende l’immagine di un grande dispiego di forze in campo dove prevalgono i grandi blocchi, con arrangiamenti di abbellimento come i colpi di piatti per far culminare un crescendo. La registrazione è piuttosto energica e tagliente. Una combinazione di piano e percussioni metalliche fa da intermezzo agli interventi di grandi masse corali e di sintetizzatori. In seguito vengono periodi musicali pacati e quasi da colonna sonora (non a caso Vangelis in questi anni ed anche in seguito compone per molti film, un’attività che accompagna sempre la sua vita professionale), questo fa da preludio all’unica concessione alla canzone. Ancora un andamento ritmato e incalzante con una pulsazione di tre note brevi.

L’arrivo della voce viene preparato strumentalmente, con il piano “quasi pulito” che lascia il posto a strati di tastiere e ad un effetto di vento. Giunge così, come un raggio di sole tra le nubi e preceduta da una micro pausa di grande effetto So long ago, so clear, cantata da Anderson. La voce del solista degli Yes ha un timbro riconoscibilissimo e si unisce molto bene alle tastiere che abbandonano il ruolo da protagoniste.

Logicamente la melodia è composta per calzare a perfezione per la sua tonalità vocale, ha un portamento nostalgico e successivamente gli interventi strumentali sembrano la perfetta conseguenza del cantato, che esegue l’ultima strofa dopo un breve interludio e quindi la chiusura con cimbali e veli di sintetizzatori piuttosto “cinematografici” che si avvicinano e si allontanano. I due musicisti negli anni danno vita ad un sodalizio che produce vari dischi, alcuni dei quali validi e sporadici concerti. Lo stile e il genere di Vangelis si fondono bene con le caratteristiche vocali di questo cantante. Questo disco viene eseguito dal vivo in rarissime occasioni data la necessità di molti strumenti, del coro, dei solisti e stante le difficoltà tecniche nel rendere la fedeltà del disco.

La seconda facciata si apre con Falcons, suoni grevi, dalla ritmica diluita, privi di melodia: una sorta di dura musica ambient che proprio nel periodo nel quale viene inciso questo disco sta nascendo in ambito pop. Ora l’atmosfera è inquietante e non c’è più nulla della maestosità della prima parte, si odono persino effetti che riproducono suoni dalla natura, come versi di animali. Una forte cesura evidenzia un brano ritmico che crea agitazione con percussioni di legno e metalliche e motivi di sintetizzatori che si inseriscono. Siamo in Needles, l’elaborazione ruota sempre intorno ad un semplice tema ritmico, un ostinato in primissimo piano. D’improvviso si entra in Friday Night e successivamente viene rallentato il tempo. Il coro in primo piano scompare di fronte all’avanzata di timpani, sonagli e sinistri effetti di tastiere che prendono il sopravvento e accelerano il pezzo.

La sospensione del tempo riaffiora con effetti elettronici di voci che gemono, timpani e cupi sonagli con una forte caratteristica di presenza. Di nuovo il coro, sembra un coro di defunti  e una campana in lontananza batte alcune note creando un effetto di profondità. Ora una voce femminile solista si stacca e intona un vocalizzo etereo, accompagnata da un violino e da altri effetti secondari; canta anche a bocca chiusa una semplice melodia ondeggiante senza parole e la campana che si perde in lontananza chiude il brano con voci ora maschili. Siamo ai confini tra la musica colta e il pop, dove lo stile del musicista fa si che ogni genere trattato perda qualcosa della sua natura in favore dell’omogeneità stilistica da lui voluta. Un altro attacco massiccio di sintetizzatori fa sobbalzare sulla poltrona. È l’andamento travolgente di Heavy, con il ritmo scandito forse da un triangolo e accompagnato anche da piatti e rullante. Dura pochi minuti e in seguito delinea un clima sereno (il sotto-brano Aries), ancora di nuvole che si aprono, dove le tastiere si sovrappongono tra accordi tenuti e filler di note singole.

Siamo verso l’epilogo di un’opera basata sui forti contrasti di chiaroscuro musicale e sulla presenza-assenza di grandi masse tonanti che danno solennità alle musiche. L’ascoltatore capta delle architetture sonore, definite e delimitate da uno stile e da un genere progressive. I tre elementi che rappresentano i pilastri dell’album sono le tastiere elettroniche e tutto il loro apparato di possibilità, le percussioni e le voci usate sia in coro sia da soliste. Questo è un tipico disco che divide gli ascoltatori e la critica, tra coloro che lo amano e coloro che lo disprezzano per gli stessi motivi per cui i primi lo apprezzano. Mentre un buon disco di jazz-rock troverà una certa omogeneità di giudizio, accomunando differenti specie di musicofili, questo invece è meno “trasversale”, divide in due nette schiere chi lo ascolta: capolavoro o melassa appiccicaticcia.

Alcuni tappeti di tastiere sostengono freddi suoni che chiudono il disco sfumando.

V Voti

Voto degli utenti: 6/10 in media su 1 voto.
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REBBY 6/10

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