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R Recensione

7/10

Beggar's Opera

Act One

Introdotto in copertina da uno dei più stravaganti set del creativo, celebrato fotografo e grafico Keith McMillan (in arte Marcus Keef, o semplicemente Keef), l’esordio discografico di questo gruppo di Glasgow è un’assoluta chicca per gli estimatori profondi della musica progressive.

I non appassionati d’altro canto troveranno quasi per certo ingenue e datate queste musiche… ma sento di affermare quanto valga la pena collezionare opere come questa anche solo per la qualità artistica e massimamente visionaria degli scatti del grande Keef, per intenderci autore delle prime tre cover dei Black Sabbath, di quella di “Valentyne Suite” dei Colosseum e di altre ancora meno famose (Nirvana UK, Spring, Warhorse…) ma sempre genialoidi, tutte o quasi commissionategli dall’allora furoreggiante, fascinosa etichetta discografica Vertigo, un marchio capace di segnare un’epoca musicale unica e inimitabile già colla sua micidiale etichetta psichedelica.

Il quintetto scozzese si affaccia dunque sul mercato con quest’album che suona assai derivativo, per meglio dire bellamente a cavallo fra l’allora ancor fresca intuizione dei Nice di Keith Emerson (ossia: scopiazzamento con destrezza, furberia e versatilità di pagine classiche, meglio se fra le meno scontate e celebri) e la strana alchimia hard/pop/progressiva alla base della prima fase di carriera dei Deep Purple (il cosiddetto “Mark I”, a monte del falsettone blues di Ian Gillan e dei riffoni al basso di Roger Glover destinati a far optare la band, per nostra fortuna, a favore dell’hard rock una volta imboccata la fase “Mark II”).

Per correre dietro a queste due seminali bande di fine anni sessanta ci vogliono i musicisti giusti e i Beggars Opera li possiedono: a Emersoneggiare provvede tale Alan Park, all’epoca appena diciottenne e fresco di diploma al conservatorio, per certo assoluto dominatore di quest’album col suo Hammond onnipresente e virtuoso; la Fender Stratocaster che solca questo mare d’organo, ogni tanto prendendosi il proscenio, è invece manovrata con indubbia perizia da tal Richard Gardiner e sfoggia suoni e gusto decisamente Blackmoriani, dai quali in ogni caso il buon Ricky si affrancherà di brutto diversi anni dopo, una volta entrato nell’entourage di David Bowie (album “Low”) e di Iggy Pop (album “Lust For Life”, la sua firma anche sullo storico singolo “The Passenger”).

La nota stonata di queste registrazioni è la resa del biondissimo cantante Martin Griffiths: tanta potenza ma intonazione e controllo ancora dilettanteschi, non aiutati oltretutto da adeguata produzione, povera di riverbero e in generale di competente “affogamento” nel mix delle parti cantate. La sensazione ripetuta è che il canto sia un po’ appiccicato sopra la base strumentale… un feeling d’altronde comune a parecchia musica di questo genere, ad esempio a buona parte del cosiddetto progressive italiano di quegli anni a venire, ma anche a ben fortunati progetti tipo Dream Theater (specie quelli dell’esordio “Dream and Day Unite” col modesto frontman Charlie Dominici… ma anche nel seguito, col più valido James LaBrie a verseggiare spesso e volentieri da vero intruso in mezzo alla sborona accozzaglia strumentale degli altri quattro).

Per la cronaca i Beggars Opera supereranno sveltamente questa fase acerba e impersonale, coniando una seconda opera “Waters Of Change” notevolmente diversa e matura, giocata su di un progressive pop rock rotondo ed equilibrato, fatto a canzoni e non più a suites, nel quale il vocione di Griffiths adeguatamente microfonato ed effettato farà la sua bella figura. Col secondo album e ancora più col terzo “Pathfinder” il quintetto scozzese troverà il suo proprio suono, la sua vena progressiva melodica e suggestiva, con tanto di sacrosante sfumature di gighe scozzesi ed un costruttivo ridimensionamento dello strafare organistico di Alan Park.

Poi, inspiegabilmente, la perdita subitanea d’ispirazione e l’oblio, già dal quarto album “Get Your Dog Off Me”, del tutto trascurabile o quasi così come i successivi (altri quattro o cinque, sparsi uno ogni cinque anni fino ad epoche recenti).

Ma quest’album, pur non essendo come detto il migliore e tantomeno il più indicativo del suono Beggars Opera, ha comunque il suo perché se non altro a simbolo di come si riusciva a fare, e poi pubblicare!, musica “strana” quarant’anni fa. E allora fra Passacaglie, Guglielmi Tell, accenni a Peer Gynt e a Franz Von Suppè ed altre riprese rock di pagine classiche, si riesce ancor oggi ad apprezzare, mettendoci la buona dose di indispensabile storicismo, le spumeggianti e candide esagerazioni dei quaranta minuti di sarabande para-classiche in questione, infiorettati da qualche melodia vocale, molto entusiasmo e soprattutto alcuni memorabili passaggi (il break chitarristico di Gardiner in “Passacaglia”; il liquido, liricissimo finale d’organo di Park in “Memory” ad esempio).

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Voto degli utenti: 5,6/10 in media su 7 voti.
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loson 7,5/10
B-B-B 5,5/10
Lelling 5,5/10

C Commenti

Ci sono 8 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Utente non più registrato alle 13:58 del 15 settembre 2015 ha scritto:

Sicuramente quest'album non rientra nella schiera di opere memorabili del progressive...

Giuseppe Ienopoli alle 12:11 del 16 settembre 2015 ha scritto:

... a me piacciono ancora ... andavano come una locomotiva a vapore, c'era anche un "Wilson" alle percussioni che si conciava come un cugino di campagna ma non perdeva un colpo ... saranno serviti finanche alla PFM live per l'idea degli inserti classici ... overture e dintorni ...

PierPaolo, autore, alle 21:08 del 17 settembre 2015 ha scritto:

Raymond Wilson

Giuseppe Ienopoli alle 9:41 del 18 settembre 2015 ha scritto:

... parente di her majesty the king Steven Wilson from Kingston upon Thames ... ?? ... !

PierPaolo, autore, alle 8:06 del 19 settembre 2015 ha scritto:

No, è scozzese Raymond, di Glasgow come tutti gli altri.

unknown (ha votato 7 questo disco) alle 12:05 del 19 settembre 2015 ha scritto:

il voto ci sta tutto..come dice vdgg non è un disco di importanza vitale per il progressive ma comunque piacevole

ma tu pier paolo continua cosi sei rimasto uno dei pochi che recensisce opere degli anni 70..a volte mi sembra

che oramai gli anni 70 vengano considerati quasi spazzatura...

PierPaolo, autore, alle 16:46 del 19 settembre 2015 ha scritto:

Non spazzatura... diciamo Musica Classica. Come è giusto che sia. Oramai sono ben lontani quegli anni.

unknown (ha votato 7 questo disco) alle 19:19 del 19 settembre 2015 ha scritto:

certo...nessun dubbio..ma quanta musica di oggi deve dire grazie a quella musica......