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7/10

Il Paradiso Degli Orchi

Il Paradiso degli Orchi

Brescia (se c’è necessità di ribadirlo nuovamente) già da parecchi anni si sta dimostrando una delle scene più ferventi e creative del nostro panorama musicale indipendente. Calderone di un’eterogeneità stilistica molto ampia, alla scena bresciana viene riconosciuto il merito di aver saputo pescare ottimamente nel suo sostrato per, successivamente, far fruttare qualitativamente i propri prodotti anche al di fuori del mero contesto territoriale. Solo un esempio, tra i più recenti (ed eclatanti): gli Aucan, capaci sia di mettersi in gioco abilmente - dapprima - in incursioni math-rock (Aucan del 2008) ed - ora - in convincenti immersioni dubstep (con il recente Black Rainbows), fino a condurre (e far apprezzare) la loro proposta oltre i confini italici.

Nella penombra e in attesa di un riscontro ben più ampio di quello ottenuto fino ad ora, esistono comunque valide realtà - "rodate" da alcuni anni di esibizioni live in piccoli locali e, soprattutto, in sala prove - che non rimangono certamente ferme a guardare. In questa categoria, rientrano alla perfezione i Il Paradiso degli Orchi: quartetto bresciano, formato nel 2007 da Michele Sambrici (chitarra, voce) e da Marco Degiacomi (batteria), vede due anni più tardi l’ingresso di Andrea Corti e Iran Fertonani (rispettivamente al basso e percussioni) nel progetto. Con questa line-up, ad inizio 2010, registrano un demo contenente sei tracce, tutte riproposte nel debutto - omonimo -, registrato nello studio Altefrequenze di Brescia (e prodotto da Giorgio Reboldi), distribuito da inizio gennaio dalla Orquestra Records.

Il disco si apre mettendo subito sul piatto la torbida Intro: tessuto sporco di dissolvenze post-punk con accenni noise, sostenuto da una sezione ritmica scandita in forte sinergia tra Fertonani e Degiacomi, che introduce, attraverso uno spoken words di ironico rancore (in italiano, episodio isolato entro il disco se non si considera Foglio Bianco, ghost track in coda al disco), Where is the light?. Ed il contrasto è, fin da subito, netto, spiazzante: caratterizzata da una notevole cura armonica e dal bell’impatto pop, è tra gli episodi a più alto connotato emotivo del disco - nonché, per altro, meritevole di una pubblicazione sulla compilation internazionale Rock4love 2009 - . Il disco prosegue con l’ottima My Sin: immesso da cupi tribalismi, il brano poggia dapprima su giri e metriche reiterate (nelle strofe, in particolar modo), per poi dispiegarsi in una convincente e vulcanica progressione. Il tema, tra brillanti cambi di tempo , viene ripreso successivamente, accompagnato da un cantato a tenue - sebbene mai fastidiose - tinte epiche (in particolare, nel convulso e frastagliato ritornello), in odore di primi Muse. Dopo le effusioni insieme melanconiche ed istrioniche di Sad Song #51, a fare breccia è la struttura di My damned mind, che, domata dapprima da scorie post-rock, si riversa in un convincente ritornello dal retrogusto dEUS (più cupi), per poi animarsi in un cavalcata molto introspettiva, infiammata da un andamento frastagliato e, in sottofondo, da poliritmie e tribalismi ben assettati. Torna il sole con l’eccellente Margherita, vera e propria perla alt-pop. L’art-rock e il prog di Sofa, un folle sali e scendi ispirato tanto da progressioni crimsoniane (ma anche da Primus e Zappa) quanto da influssi ritmici à la Talking Heads, si distingue per la sua attitudine stravagante ed eclettica: uno dei migliori episodi del disco. Dopo Pig War, brano intriso di frenesie psych-rock (nel quale eccelle la vorticosa ghirlanda lisergica tessuta dall’organo), il disco presenta un brusco rallentamento: dapprima, con Remember (sia per la spiazzante ossatura da ballata hard rock, sia per il virtuosismo nel riff centrale) e, successivamente, con tutta una serie di "sbavature" e imperfezioni entro i brani restanti, che limitano, purtroppo, la compattezza del lavoro (fin qui, in brillante equilibrio). Ad esempio, nella pur interessante e coraggiosa Ugly Man - bizzarro e abrasivo incontro tra Calexico, Muse e Mars Volta - la quale pecca sia di eccessivo minutaggio, sia per il tono un po’ troppo tronfio di certi passaggi ; in modo simile, la buona Panic Station - isteria da variazioni di tempo tecnicamente inappuntabili, sostenute da buone progressioni dall’andamento funky (molto accelerato), nonché da un scintillante riff desertico - sarebbe stata, a mio avviso, più efficace se avvicinata maggiormente alla forma canzone. La scarna e lo-fi ghost track (Foglio bianco) in coda alla ballata Sad Song #4, fa inaspettatamente- e con buoni risultati, tra l’altro - avvicinare i Il Paradiso degli Orchi con le "atmosfere" intime di cantautorato e di pop italiano (leggere, tra gli altri, alla voce Dente, Valentina Dorme, Perturbazione, Verlaine).

Tirando le somme, il disco mette in mostra la doppia anima della band: alcuni brani sembrano votati decisamente per la resa live (My Sin, Panic Station, Remember, Sad Song #4, Ugly Man, My Damned Mind) ; i restanti, si distinguono o per maggiore immediatezza d’insieme (nella geniale My Sofa e in Pig War), o, addirittura, per tratti squisitamente radiofonici (in prelibatezze come Where’s the Light? e Margherita). Il Paradiso degli Orchi è un disco fatto di bozzetti, frammenti, improvvisazioni e intuizioni, amalgamati da una convincente attitudine melodica (pop) e da una creatività straripante, molto spesso inglobata in strutture dalla forte impronta prog: un collage di spunti e idee che, se spesso non si mantiene congiunto in modo del tutto convincente, d’altro canto evidenzia che, in questo groviglio di stili e generi, si sta effettivamente impalcando ed evolvendo un’ identità musicale singolare e sui generis. Creare, o almeno tentare di creare un prodotto di questo tipo, che faccia dell’originalità un principio assoluto, non è, a parere di chi scrive, cosa da poco: affrontare (e con estrema naturalezza, va detto) questa sfida, lascia presagire interessanti sorprese nel futuro dei Il Paradiso degli Orchi.

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Teo 7/10

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