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R Recensione

7/10

Leptons

Between Myth And Absence

Al nome Leptons risponde tutto l’organico messo su da Lorenzo Monni (voce, chitarre e loop), costituito da Alex Grasso (basso), Paolo Gravante (batteria), Luca Visentin (fonico e batteria) e Davide Doretto (tastiere), a cui vanno aggiunti – nella formazione live – almeno un altro paio di musicisti. Copertina distopica e surreale per questo “Between Myth And Absence”, un disco dall’intenso sapore progressive, con aromi jazz, wave e art rock. Il tema cardine è, per l’appunto, il filo di rasoio fra la creazione e propagazione del mito, e la sua assenza. Ci pare di capire che i Leptons propendano per la seconda, lasciando intatto soltanto il mito dell’amore. Il disco è infatti una digressione sugli equilibri del cuore, con inframmezzi di puro e disincantato distacco.

Proprio in questo lento allontanarsi sta l’incipit di “Back To Oblivion”, prima di irraggiarsi dolcemente di chitarre, con la voce di Monni su un tappeto ritmico in continuo movimento, quasi fosse la rapsodia boema dei Queen. Senza accorgersene ci si sposta sulla ballata “Instrument Man”, che potrebbe essere un pezzo dei R.E.M. se non fosse per quell’intercalare molto smallfacesiano. Un’improvvisazione jazz – assenza reale e struggente – e il disco riparte con “The King Inside Of Me”, forse il brano più dissonante e dissennato dell’intero disco: a sferzate chitarristiche degne dei migliori Genesis i Leptons affiancano una progressione che batte i sentieri più reconditi della tradizione americana, tra blues e jazz tout court. Se “Beware” è musicalmente briosa, altrettanto non può dirsi della lunga “In My Hutch”, dove emergono la complessità e la diversità delle esperienze musicali dei nostri. Evoluzioni sintetiche in stile P.F.M. assieme a cori degni dei Picchio dal Pozzo, e poi quasi un falsetto, e ancora viottoli spazzolati di jazz e infine una nenia languida: tutto fa tornare alla mente la grande epopea del prog di casa nostra.

Ascoltando “Silent” penso agli Smiths ma, dopo un altro interludio fatto di pizzichi, arriva il math rock scanzonato e leggero di “Sharathon”, praticamente un invito al ballo. La quinta assenza del disco è delegata a tastiere che fingono un confronto di organo e ciaramella, come a prendere le distanze dal mito di Dio. A questo punto arriva “Mr. Hurtsman” e, – strano a dirsi – ogni volta che un brano comincia con "mister" o "mistress" penso a Simon & Garfunkel: ancor più strano ammettere che il brano ha molto del duo folk statunitense. Dal predetto brano ne consegue un interludio e infine “Leptons In Love”, sorta di lettera d’amore scritta dalla band veneziana a mo’ di punto.

Un tempo si chiamavano concept album tanto che, nei fitti boschi della musica leggera, apparivano come dei bellissimi e pericolosi unicorni. Personalmente ho sempre preferito l’eleganza del concetto a quella della sua realizzazione pratica ma, quando puoi avere entrambe le cose, mi sento appagato. “Between Myth And Absence” è dunque un disco che rincuora e soddisfa, un lavoro di cui i Leptons devono aver sentito una reale necessità.  Resta però irrisolto il quesito: cosa scegliere tra il mito e la sua assenza. Vivere di idee – con le relative vittorie e sconfitte, speranze e illusioni – o liberarsene definitivamente – approdando al magnifico deserto del "fuori di sé"?

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