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R Recensione

6/10

The Lens

Regeneration

I The Lens costituiscono la fase primordiale di quello che poi si sarebbe evoluto in quella formazione del prog inglese Anni ’80, passata poi alla storia (fosse anche una storia minore) con il nome di IQ. In verità, la concezione di questi ultimi era ancora ben lontana quando Mike Holmes (alle chitarre in questi The Lens come negli IQ), Rob Thompson (al basso), Brian Marshall (batteria) e Peter Blacker (tastiere) iniziano a suonare nei college inglesi. Ben presto Thompson e Blacker abbandonano la formazione e Martin Orford (tastierista e mente creativa poi negli IQ) prende magistralmente controllo delle tastiere, mentre il posto di bassista rimane vacante, fino all’inserimento del fratello di Brian, Les Marshall.

La direzione musicale dei The Lens rimane sicuramente legata ad una impostazione romantica tipica di un certo Progressive inglese (Camel, Renaissance, Genesis), ma non manca di spunti più ‘spaziali’ assorbendo influenze da gruppi come Hawkwind, Ash Ra Tempel o Ozric Tentacles. Dopo lunghi anni di oblio e con gli IQ in piena attività, nel 2001 il logo dei The Lens viene nuovamente portato alla luce con un album, “A word in your eye” che include nuove registrazioni delle vecchie composizioni della band. Nel disco però non avviene una vera e propria reunion: si tratta principalmente di una rielaborazione a due fatta da Holmes (che si occupa anche del basso) e Orford, coadiuvati alla batteria dall’amico Paul Cook e al sassofono Tony Wright, che già diverse volte ha dato il proprio contributo agli IQ. Il capitolo sembrava chiuso. Ma a nove anni di distanza Mike Holmes prende la decisione, praticamente in solitaria, che ad un prequel deve seguire un sequel.

Questo è infatti “Regeneration”, un nuovo episodio costituito però, a differenza di “A word in your eye”, completamente da nuove composizioni e connotato dall’assenza di Martin Orford, ormai ritirato a vita privata, lontano da un mercato musicale nel quale non si riconosceva più. Mike Holmes si fa carico delle chitarre, del basso e delle tastiere, mentre a dare man forte alla batteria è convocato ancora l’altro membro storico degli IQ, Paul Cook e l’amico Niall Hayden mentre alle parte di sassofono ancora una volta Tony Wright. Il disco non ha tra i suoi obiettivi la potenza della sezione ritmica o il lirismo di tastiere (croce e delizia di tanto prog a questa parte) o chitarra (sempre molto ispirata dallo stile di Hackett). La preoccupazione principale è quella di creare atmosfere molto ricercate, eteree e cristalline, senza il bisogno di ingarbugliare la linearità delle melodie.

Le velleità jazz-rock che sarebbero affiorate in Seven stories into Eight (altra collezione di canzoni appartenute alla prima fase degli IQ) non costituisce parte integrante dei The Lens ma anche il classico suono IQ stenta ad emergere (il brano più reminiscente è costituito dalla lunga Full of stars, ed è a mio avviso il momento più alto dell’intero “Regeneration”).

I The Lens hanno rappresentato un ponte ideale fra la prima guardia del Progressive inglese e le nuove leve che di lì a breve (siamo nel 1977) avrebbero creduto di poter rimpiazzare nel cuore dei fan un suono che forse troppo precocemente stava o scomparendo o si stava commercializzando. E per un quasi un decennio il gioco è anche riuscito. Poche sono infatti le band provenienti dalla terra d’Albione appartenute al cosiddetto New Wave of Progressive Rock che hanno prodotto materiale realmente memorabile.

Ma gli IQ fanno sicuramente parte di queste. Oggi i The Lens hanno il sapore di un diversivo rispetto alle dense atmosfere degli IQ e sono divenuti un vero e proprio side-project nel quale space-rock, ambient, elettronica, trance-rock, psichedelia si trovano a convivere (felicemente), senza indagare il lato oscuro della luna, ma componendo una colonna sonora ideale per una esperienza da corpo astrale.

Tutto scorre senza l’ansia di lasciare segni indelebili nella “storia della musica”: i The Lens sono felici di regalare ai propri ascoltatori un’ora di musica d’astrazione in cui tirare un sospiro di sollievo dagli stress quotidiani e abbandonarsi al flusso sonoro senza resistenze o reticenze. Può forse sembrare poco, ma alla fine si prova anche un po’ di dispiacere nel ritornare a vita attiva dopo la conclusiva Slowdown.

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