R Recensione

4/10

James Blackshaw

The Cloud of Unknowing

Chiamasi fingerpicking quella tecnica di suonare la chitarra alternandosi nel pizzicare i bassi e arpeggiare le altre corde con stili differenti da quelli degli arpeggi più standard. Chiamasi “The cloud of unknowing” un disco pulito e cristallino dove il musicista James Blackshaw sfoggia tutta la sua competenza in merito proponendoci cinque lunghi brani strumentali nei quali risalta un fingerpicking raffinato, più o meno elaborato, più o meno scarno, raramente farcito da violini e/o campanellini. Il disco mi ha talmente colpito che ci tengo a descriverlo in una recensione track-by-track.

La prima traccia dura dieci minuti e cinquantacinque secondi, si intitola come il disco ed è contrassegnata da un ottimo fingerpicking.

La seconda traccia dura sei minuti e sedici secondi, si intitola “Running to the ghost” ed è contrassegnata da un ottimo fingerpicking.

La terza traccia dura tre minuti e cinquantasei secondi, si intitola “Cloud collapse” ed è contrassegnata da un ottimo fingerpicking.

La quarta traccia dura sei minuti e trentuno secondi, si intitola “The mirror speaks” ed è contrassegnata da un ottimo fingerpicking.

La quinta traccia dura quindici minuti e quattro secondi, si intitola “Stained glass window” ed è contrassegnata da un ottimo fingerpicking.

 Ascoltandolo ho la sensazione di aspettare che debba iniziare il cantato da un momento all’altro, ma l’autore proroga il silenzio per tutta la durata dell’opera. Sarebbe un disco emozionante e suggestivo se ci fosse sopra la voce di Will Oldham, di Bjork o, perché no, quella dello stesso autore, ma in questa forma non sembra nulla più che una raccolta di basi o di esercizi, adatto ad autorevoli riviste come “Fingerpicking oggi”, “Fingerpicking che passione” o “Tutti in fingerpicking con James Blackshaw”.

Non fraintendetemi: amo i dischi strumentali, ho apprezzato molto “Solo piano” di Gonzales e la discografia di Eluvium; non cerco la forma canzone dovunque, ammiro sia le prove strumentali più essenziali che quelle più oltraggiose, ma la monotonia con cui l’artista si impegna nel tratteggiare l’ennesimo quadretto invernale sperduto solitario limpido e bianco come la neve incontaminata d’alta montagna fa sembrare “The cloud of unknowing” (che titolo evocativo) più un allegato a pubblicazioni new age che una produzione degna delle decine di release acustiche che ogni anno sovraffollano il mercato.

Non si tratta nemmeno di musica ultratecnica fine a sé stessa, è semplice noia; sembra che ci sia solo la totale freddezza e qualche spunto sprecato, in più la poca originalità e l’assenza della pretenziosa spocchia da esperto chitarrista fanno di questo ascolto un’iterazione di sbadigli.

Chiedo a chiunque (possibilmente un Adepto al Culto Misterico dell’Aura Introversa che circonda ogni buon artista indie-folk) di illuminarmi sull’utilità di uscite del genere perché io sono sicuro di avere l’apparato uditivo così ignorante da non capire perché il disco passerà per l’ennesima gemma del 2007, l’artista semisconosciuto di cui fregiarsi con gli amici al Circolo Arci, la raffinata e delicata scoperta dell’anno, “cosa stai ascoltando di recente? Eh, James Blackshaw!”. Vi prego, fornitemi una chiave di lettura che non sia quella del vantarsi di ascoltare musica seminale o presunta tale, “d’altra parte qui c’è la Musica Vera non i tour da miliardi di dollari di rockettari sdentati o peggio ancora le reunion fasulle”.

Anzi, spiegatemelo dopo, ora abbandono la tastiera del pc e impegno le mani su quella della chitarra: corro a imparare anch’io un po’ di fingerpicking...

V Voti

Voto degli utenti: 8/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Wasted Jack (ha votato 8 questo disco) alle 11:03 del 22 luglio 2007 ha scritto:

Scusami ma non sono proprio d'accordo. Blackshaw ha 25 anni e suona come John Fahey e non è cosa da poco. Oltre ad una tecnica straordinaria ha anche grande intuizioni compositive che non fanno mai cadere nella banalità questo lavoro.

Io l'ho trovato davvero ottimo