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R Recensione

4,5/10

Pennelli Di Vermeer

NoiaNoir

Se, com’è vero, non è mai facile condividere un giudizio od un’impressione negativa, la situazione peggiora tanto più entra nelle grazie e nelle stime dello scribacchino l’oggetto del dibattere. Non mi vergogno a dire che non per sudditanza, ma per pura perplessità prima, per sincero dispiacere poi, ho evitato di affrontare di petto la questione “NoiaNoir”, comeback discografico del progetto partenopeo Pennelli Di Vermeer, a sei anni di distanza dal precedente “La Primavera Dei Sordi”. In mezzo, forse, la chiave di volta che – sopra ogni altra cosa – consente di comprendere appieno il passaggio dall’elegante, raffinato e bislacco complessino prog-folk a questo ensemble di musicisti votati al concept sempre e comunque: il side project La Sacra Famiglia, un’autodefinitasi tragicommedia musicale in tre atti (e diciassette brani) a strumentazione allargata ed ambientazione squisitamente teatrale. Per definizione dello stesso cantante e leader Pasquale Sorrentino, si trattava di uno spettacolo “in cui raccontiamo abusi, violenze sui minori, sulle donne, mantenendo un ritmo tale che il pubblico balla e si diverte, per andare poi in confusione, al rendersi conto delle tematiche trattate”: l’unione sublime di alto e basso, il contrasto scenico par excellence, il musicista che si fa divulgatore ed entomologo, un’ironia già gravata dalla didascalia.

Il processo di mutazione avanza, inesorabile, in “NoiaNoir”, idealmente ispirato dal morboso voyeurismo che accompagna l’osservazione e la dissezione dei più eclatanti casi di cronaca nera: lateralmente, una critica in recitar cantando ad un’Occidente annoiato, bisognoso di sempre nuove e forti emozioni. A tal proposito, i Pennelli Di Vermeer hanno saccheggiato una mole importante di materiale audiovisivo, spulciando tra siti, film, serie tv, articoli di giornale. Se l’impegno è manifesto e il pretesto è labile, eclatante è l’intenzione: e tutto si riflette fatalmente in un pugno di canzoni fra loro legate, intervallate da intermezzi, pensate come un crescendo (discutibile) di complessità. In questa sede non si mette certo in dubbio la capacità del sestetto napoletano di suonare ed arrangiare: anche all’orecchio meno allenato sarà evidente la preparazione tecnica esibita a più riprese – ma sotterraneamente, Zappa mode on – nel corso del disco. Sono invero i brani, leggeri ed eterogenei bozzetti, a non decollare mai: per eccesso di kitsch (il clavicembalo della filastrocca di “Ray Chat”), per suoni oggettivamente brutti (l’attacco del galoppante country di “Scoop” che sembra fare il verso a “Born To Be Alive” di Patrick Hernandez, il caricaturale swing di “Orrido Tour”, i muffosi sintetizzatori di “Mostrografia”, lo stereotipato funk sornione di “Torquemada”) o per interpretazioni forzatamente sopra le righe (il soprano usato come contrappunto nello ska di “Mrs. Rose”, la stornellata blues da pianobar di “Show Case”).

L’eccesso di cura formale, esteriore, ha fatto inaridire il contenuto. Si gioca ancora ai quattro cantoni con “Boredom”, murder ballad riarrangiata à la Premiata Forneria Marconi, e si indovina il singolo pop retrò con la conclusiva “Animi Anonimi” (sebbene siano terribili gli archi marziali, sanremesi del peggior tipo, che riecheggiano nel refrain), ma è come se tutto fosse spersonalizzato per troppa personalità, disincantato per troppi incanti. Icaro s’è bruciato le ali ed è precipitato, sonoramente, a terra.

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