Pennelli Di Vermeer
NoiaNoir
Se, comè vero, non è mai facile condividere un giudizio od unimpressione negativa, la situazione peggiora tanto più entra nelle grazie e nelle stime dello scribacchino loggetto del dibattere. Non mi vergogno a dire che non per sudditanza, ma per pura perplessità prima, per sincero dispiacere poi, ho evitato di affrontare di petto la questione NoiaNoir, comeback discografico del progetto partenopeo Pennelli Di Vermeer, a sei anni di distanza dal precedente La Primavera Dei Sordi. In mezzo, forse, la chiave di volta che sopra ogni altra cosa consente di comprendere appieno il passaggio dallelegante, raffinato e bislacco complessino prog-folk a questo ensemble di musicisti votati al concept sempre e comunque: il side project La Sacra Famiglia, unautodefinitasi tragicommedia musicale in tre atti (e diciassette brani) a strumentazione allargata ed ambientazione squisitamente teatrale. Per definizione dello stesso cantante e leader Pasquale Sorrentino, si trattava di uno spettacolo in cui raccontiamo abusi, violenze sui minori, sulle donne, mantenendo un ritmo tale che il pubblico balla e si diverte, per andare poi in confusione, al rendersi conto delle tematiche trattate: lunione sublime di alto e basso, il contrasto scenico par excellence, il musicista che si fa divulgatore ed entomologo, unironia già gravata dalla didascalia.
Il processo di mutazione avanza, inesorabile, in NoiaNoir, idealmente ispirato dal morboso voyeurismo che accompagna losservazione e la dissezione dei più eclatanti casi di cronaca nera: lateralmente, una critica in recitar cantando ad unOccidente annoiato, bisognoso di sempre nuove e forti emozioni. A tal proposito, i Pennelli Di Vermeer hanno saccheggiato una mole importante di materiale audiovisivo, spulciando tra siti, film, serie tv, articoli di giornale. Se limpegno è manifesto e il pretesto è labile, eclatante è lintenzione: e tutto si riflette fatalmente in un pugno di canzoni fra loro legate, intervallate da intermezzi, pensate come un crescendo (discutibile) di complessità. In questa sede non si mette certo in dubbio la capacità del sestetto napoletano di suonare ed arrangiare: anche allorecchio meno allenato sarà evidente la preparazione tecnica esibita a più riprese ma sotterraneamente, Zappa mode on nel corso del disco. Sono invero i brani, leggeri ed eterogenei bozzetti, a non decollare mai: per eccesso di kitsch (il clavicembalo della filastrocca di Ray Chat), per suoni oggettivamente brutti (lattacco del galoppante country di Scoop che sembra fare il verso a Born To Be Alive di Patrick Hernandez, il caricaturale swing di Orrido Tour, i muffosi sintetizzatori di Mostrografia, lo stereotipato funk sornione di Torquemada) o per interpretazioni forzatamente sopra le righe (il soprano usato come contrappunto nello ska di Mrs. Rose, la stornellata blues da pianobar di Show Case).
Leccesso di cura formale, esteriore, ha fatto inaridire il contenuto. Si gioca ancora ai quattro cantoni con Boredom, murder ballad riarrangiata à la Premiata Forneria Marconi, e si indovina il singolo pop retrò con la conclusiva Animi Anonimi (sebbene siano terribili gli archi marziali, sanremesi del peggior tipo, che riecheggiano nel refrain), ma è come se tutto fosse spersonalizzato per troppa personalità, disincantato per troppi incanti. Icaro sè bruciato le ali ed è precipitato, sonoramente, a terra.
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