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R Recensione

6/10

Arena

The Seventh Degree Of Separation

Gli Arena sono una formazione inglese che a metà Anni ’90, forse fuori tempo massimo, ha cercato di riallacciare i rapporti con quello che all’inizio del decennio precedente è stato definito “new-prog”. Affinché questa ricongiunzione avvenisse con successo, i crismi di certo non mancavano: a fondare e a guidare il gruppo c’era, allora come oggi, Mick Pointer storico drummer presente sull’altrettanto storico album di debutto dei Marillion, “Script From a Jester’s Tear” (1983), inoltre il manifesto programmatico si poneva come obiettivo, il riprendere in mano quelle strutture sonore che la sua ex-band aveva ormai abiurato da parecchi anni. Per raggiungere tale fine venne messa in piedi una line-up (fra dipartite e ritorni, mai troppo stabile) di talentuosi musicisti in grado di padroneggiare partiture complesse, dal sapore epico, dall’andamento sinfonico e dal cuore romantico. Comunque nonostante la derivatività dell’idea iniziale e di alcuni risultati, gli Arena sono stati un saldo punto di riferimento per tutti coloro sinceramente innamorati sia dei primi Marillion, sia dei Pendragon (il loro keybord-wizard Clive Nolan, ha un ruolo centrale accanto a quello di Mick Pointer), assestando nella propria discografia alcune canzoni indimenticabili e almeno un “grande lavoro” come “The Visitor” (1998), che attraverso la forma del concept album, regala molte suggestioni Floydiane grazie all’arruolamento del chitarrista virtuoso-con-gusto John Mitchell, fortunatamente presente anche in questo nuovo opus. Opus che vede il rientro in casa dell’ottimo bassista John Jowitt dopo tredici anni di assenza e dopo aver salutato le fila degli IQ. Il vocalist, Paul Manzi, è invece una “new entry”, ma non mette in discussione la regola cardinale della riproposizione delle timbriche che furono di Fish (per i pochi che non lo conoscessero il corpulento e carismatico frontman dei primi Marillion), con una impostazione molto teatrale, anche se a dire il vero il nuovo singer ha una personalità molto più hard-rock, richiamandosi anche alle doti dell’ugola di Geoff Tate dei Queensryche e agli acuti di Bruce Dickinson degli Iron Maiden.

Cosa sono oggi gli Arena? Gli Arena restano un collaudatissimo veicolo di conciliazione fra le classicheggianti derive del prog-metal (i citati Queensryche, ma anche i Dream Theater) e i mostri sacri del prog melodico (ancora una volta, volendo e impegnandosi, si può partire dal trittico Marillion-Pendragon-IQ per risalire ai Genesis dell’era Gabriel). Questo disco, a differenza dei suoi sei predecessori, fa uno sforzo sovrumano per contenere la durata dei pezzi entro i quattro minuti e mezzo (ed è un record, per una formazione con standard così schiettamente e volutamente legati agli stilemi “classic prog”), tranne che per la sola Catching The Bullet che per poco non tocca gli otto minuti: gli esiti tuttavia non mutano. Ovviamente saltano gli assoli più pericolosamente lunghi e questo è un bene, anche perché grazie ad una produzione molto curata e accorta, la dinamica dell’interplay fra gli strumenti è esaltata al punto di consentire di seguire in modo cristallino l’intreccio stratificato delle varie parti, bypassando la necessità di spostare l’attenzione su singoli protagonismi: Bed Of Nails (puro progressive siderale), Rapture (innervata di un introspettivo piglio techno-metal) o The Tinder Box (melanconico collasso emozionale) rivelano come gli intenti del producer, Karl Groom, siano stati pienamente raggiunti. Certo, chi ha seguito, tappa per tappa, la discografia degli Arena, sa benissimo che il loro stile di scrittura è generalmente basato sul tracciamento di un ampio cerchio in cui in vari temi si alternano all’interno di una stessa composizione, evolvendo l’uno nell’altro, in modo magistrale e magniloquente. In questo disco di fine 2011, a tale prospettiva bisogna necessariamente rinunciare, salvo rifarsi con Catching The Bullet, l’unico pezzo capace di rispolverare quella propensione ad elaborare piccole suite (di cui va ricordata almeno The Hanging Tree da “The Visitor”), insieme alla sublime sequenza di The Ghost Walks / Thief Of Soul / Close Your Eyes trionfalmente dreamy e benedetta da uno stato di grazia nel dispensare eleganti melodie. Semmai la loro proposta si è ammantata di un drappo maggiormente heavy dietro il quale celare uno sguardo più cupo e una faccia dura. All’asciuttezza dei requisiti di pomposità imposti dal genere e all’assenza di eccessivi barocchismi, fa da contraltare l’intricatezza di un tessuto sonoro tramato con una rinnovata verve comunicativa che consentirà ai pezzi di avere un impatto live notevole.

Gli Arena hanno una identità scolpita nel marmo e non c’é nessun cambiamento attraverso i decenni che possa deviarli dal percorso stilistico finora intrapreso: questa la loro caratteristica, il loro orgoglio e il loro limite. Per statuto, hanno evitato di confrontarsi con la propria contemporaneità e non si sono mai posti questioni di innovazione, autorelegandosi in un limbo. Il loro è un moderno revival che, a differenza di tanta “retromania” ad opera di musicisti di una ventina d’anni più giovani di loro e più rivestiti di un’aura di tendenza, almeno ha il merito di essere stato dichiarato alla dogana.

 

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Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 2 voti.
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admin69 10/10
REBBY 5,5/10

C Commenti

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crisas (ha votato 4 questo disco) alle 1:52 del 17 febbraio 2012 ha scritto:

Sa di vecchio !

admin69 (ha votato 10 questo disco) alle 15:47 del 5 luglio 2012 ha scritto:

Certo certo, cosa poteva mai dire un 'ITALIOTA, scommetto che non sai nemmeno la differenza tra un basso e una chitarra o meglio tra un manico di chitarra e quello di una scopa.

Ovviamente per me 10 pienissimo questo perchè non hanno perso minimamente anche con l'ingresso del nuovo vocalist...sono una garanzia per questo genere