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R Recensione

6,5/10

Bulldada

Bulldada's Tavern

Lo scioglimento dei Father Figure, all’indomani dell’uscita del meraviglioso “Heavy Meddlers”, ha privato la scena internazionale di una delle formazioni neoprog più brillanti ed imprevedibili degli ultimi anni. Quello che poteva essere un epitaffio tombale alla breve carriera di una luminosissima meteora, tuttavia, si trasforma nell’insperata possibilità di un nuovo inizio quando, a distanza di qualche mese dall’accaduto, le colonne portanti della band (i chitarristi Mike Osso ed Eric Horowitz) decidono di ripartire da zero, unendo le forza con il batterista Nicholas Craig Shapiro nel progetto Bulldada. Bulldada, lo si nota subito, è un power trio atipico per moltissimi versi: nella line up priva di basso, nel modus operandi completamente autarchico ed artigianale, nella scarsissima autopromozione che lo circonda e – last but not least – negli esiti dell’esordio “Bulldada’s Tavern”.

La giustapposizione e l’alternanza di temi, la perizia tecnica, le ampie cornici strumentali che si aprono in ogni brano tradiscono abbastanza chiaramente la continuità della filiazione progressiva dei musicisti all’opera. Con qualche conoscenza pregressa in più, poi, si può riuscire ad individuare anche qualche caratteristico lick avanzato ai Father Figure (il curioso boogie a velocità supersonica di “Whizzdom” ha una coda trionfante che parla da sola). Laddove, tuttavia, le tensioni nello storytelling della band madre venivano rimpallate da scambi matematici o diluite in articolate riflessioni al limite della fusion, qui l’impostazione punta, a tratti, verso traiettorie inedite. Un ruolo essenziale, a tal proposito, è dato dal minutaggio complessivo del disco, ampiamente sotto la mezz’ora (per il genere, praticamente un extended play): una stimolante costrizione autoimposta che, spesso, vede Osso e Horowitz lavorare alacremente di lima, anziché di aggiunta. Non è dunque un sacrilegio pensare a “Bulldada’s Tavern”, prima di tutto, come ad un bignamino rock. “Ye Nameless” conserva l’ariosità glam degli Sparks di “Kimono My House”, con un duello chitarristico giocato sulla ripetizione e sulla diversa modulazione di identici gruppi di quartine (c’è lo zampino del Coltrane mistico?). Il gioiellino “Speak My Name Once To Me Only & Only To Me Once” spezza le dinamiche degli Allman Brothers con pastosi segmenti chitarristici al fulmicotone. Anche “Roadhouse Ruse” attacca con uno stereotipico riff southern, salvo poi mutare in un blues ipercinetico. “Sweet Number No. # 9” è la risposta newyorchese ai migliori Bushman’s Revenge tutti spasmo e danza sulle punte, mentre “Connoisseurs Of The Obvious” (e, in misura minore, “Drunkard’s Mirth”) introduce elementi folkish all’interno di un solido impianto jazzy.

C’è ancora molto da migliorare e correggere, non ultima una sottile ma invasiva tendenza al preziosismo estetico (che spesso sovrasta il gusto melodico, pure di per sé intrigante), ma questa perentoria ripartenza è assolutamente degna di nota.

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Utente non più registrato alle 13:33 del 11 settembre 2017 ha scritto:

Mi sono già espresso su "Cosa stai ascoltando"...