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R Recensione

7/10

Camel

I Can See Your House From Here

C’è una sottile ironia dietro ad un titolo volutamente legato ad una copertina precisa, immediata, forse per qualcuno persino inquietante. “I Can See Your House From Here” si presenta così: un settimo capitolo in cui ancora una volta i Camel subiscono l’ennesima mutazione, ad eccezione dell’ormai consolidato Latimer.

I brani che si celano dietro questa copertina “spaziale” non si allontanano molto dal predecessore “Breathless”, perlomeno per l’accento prog lievemente meno marcato. “Wait” si presenta comunque come una corsa tra vortici di tastiere e chitarre, racchiusi da un cantato ora assistito dai lamenti delle chitarre, ora dalle tastiere, ora dalla batteria. Una struttura regolare, compatta, conclusa da un corposo saluto della chitarra.

Il sassofonista Mel Collins partecipa al singolo “Your Love Is Stranger Than Mine”, pubblicato nel 1980. La voce viene sorretta da spruzzate di tastiere sul continuo saltellare delle percussioni. Il sassofono trova il suo spazio tra le cascate di percussioni e voci filtrate. Si tratta di un brano più vicino al rock-pop, ben diverso dalle ampie steppe di praterie che si potrebbero intravedere in “Eye Of The Storm”. L’intreccio delle corde è un pretesto per lasciar accasciare il flauto, arricchito poi dalle percussioni. Sono atmosfere nettamente più calme, distese, ampie: può essere considerato un anticipo di ciò che sarà “Nude”, il disco successivo.

La tripletta basso, chitarre e batteria aprono “Who We Are”, abbandonando inizialmente i sintetizzatori, rinfrescandosi con piccoli tocchi di pianoforte che coronano una corposa intro, prontamente avvolta dalla nebbia creata dalle tastiere. Il cantato dunque viaggia tra una scintillante corsa campestre tra le chitarre (è il ritornello) e una buia camminata tra i sintetizzatori. L’orchestra, servendosi dei violini, fa da intermediario tra questi due ambienti contrapposti.

Sotto questo punto di vista, “Survival” si distingue proprio per la presenza esclusiva dell’orchestra, in cui i violini sono ora dei veli che scivolano tra loro senza annodarsi. Non si tratta di un intermezzo, in quanto “Hymn To Her” si affida alle improvvise chitarre che accompagnano al cantato. Ben più pacata nei ritmi, si mostra più convincente solo con l’intervento della batteria, abbattendo la stagnante struttura creata dai sintetizzatori per lasciare spazio all’intreccio delle due chitarre.

Neon Magic” e “Remote Romance”, benché diverse, sono due fotografie dei parchi giochi, sono luci diverse di una stessa giostra che ruota prima armoniosamente e allegramente, accompagnata dalle chitarre e spinta dal basso (“Neon Magic”), per poi fermarsi e lasciare il ruolo delle protagoniste alle luci, accese e spente sotto i comandi dei sintetizzatori. “Remote Romance” si mostra allora come un gioco, una burla elettronica tra suoni e vocalizzi.

Non è però il parco giochi a chiudere il disco, tantomeno l’allegria e gli scherzi che vi si celavano. Ci si allontana quando la festa è finita, sulle note del pianoforte e con le confessioni timide della chitarra. Si apre così “Ice”, una lenta camminata destinata a divenire sempre più fredda, fino a quando è la batteria ad illuminare uno scenario invernale, in cui ora la chitarra pattina su tastiere gelide, occasionalmente illuminate da altri sintetizzatori. Una tastiera soffusa continua il percorso della chitarra, alternandosi e andando progressivamente ad aumentarne i toni e la determinazione. Il tessuto musicale si scalda, il ghiaccio dei sintetizzatori si scioglie ed emana suoni più caldi, che riempiono, abbracciano, innalzano.

La breve suite allora non poteva che chiudere un capitolo dalle mille sfaccettature, viaggiando tra i campi accentuati del rock-pop e camminando sotto pareti rocciose innalzate dai sintetizzatori, dunque laghi di ghiaccio e parchi giochi. Un piccolo viaggio, quasi come se fosse descritto a puntino da un osservatore esterno.

Sarà mica il Buon Astronauta ad aver visto tutto questo?

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