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R Recensione

6/10

Fantasyy Factoryy

Tales to tell + Dreams never sleep!

I Fantasyy Factoryy sono una di quelle poche band di cui, pur facendo musica da quasi vent’anni, nessuno s’era accorto. Quali sono allora i motivi della negligenza – o indifferenza, fate voi – nei confronti di quest’organico tedesco specializzato nel revival del rock progressivo psichedelico degli anni Settanta? Alan Tepper (chitarre e voce), Karl Watson (basso) e Cosmo Spheren (batteria), pubblicarono questi due dischi, rispettivamente il secondo e il quarto della loro carriera, tra il 1997 e il 2000.

Tales to tell” è un manuale di tuttologia musicale, onniscente da un lato, nozionistico dall’altro. “Dreams never sleep!” aggiunge qualcosa a quanto detto, presentandosi meno prog e più sixties. A rimestare in queste ristampe pregne di estetica induista, surrealismo alla Dalí, psichedelia anfetaminica e polistrumentismo prog degli anni ‘90 che scimmiotta gli anni ‘70, si corre il rischio di apparire stucchevoli e ragionevolmente fuori tempo massimo. Jimi Hendrix, campato poco, aveva già detto tutto su cosa sarebbe stato il rock a venire; dopo di lui sono state talmente tante le band progressive che hanno cercato di ravvivare, attualizzare, modificare, migliorare, contrapporre, personalizzare, complicare la struttura del rock che enumerarle tutte sarebbe impossibile.

Nel primo disco della ditta monacense spiccano “Season of sorcery”, per via di un basso poderoso e del flauto di Rainer Opiela, e “New dawn”, suite tipicamente psichedelica sia in termini di durata che di concept. Ma a colpire di più l’attenzione sono forse le tre bonus track provenienti dall’ultimo LP del 2008 “This is the future of tomorrow” ivi contenute: “Love in the 21st century” grazie all’organo di Markus Dassmann e al basso di Gene Dean, “Just a hazy summer”, lieta e frivola con la partecipazione di Christian Massa al basso, e “Childhood manor”, operetta da camera in stile “Lady Jane” col violoncello suonato da Olga Minskaya.

Nel secondo disco i Fantasyy Factoryy inseguono sentieri decisamente più praticabili, e la loro musica diventa più intrigante e trascinante. I brani migliori sono quelli più lunghi: gli oltre undici minuti di  “Landing” e il quarto d’ora di “Room of echoes”. Organico canonico di chitarra elettrica, basso e batteria, e nessuna concessione agli strumenti caratteristici del prog (flauto, organo, moog, violino). Discreti gli effetti chitarristici, ineccepibile la cadenza ritmica, coinvolgenti le basse frequenze. Queste due processioni sonore, intervallate soltanto dalla voce di Alan Tepper, prospettano un lungo trip della mente e dei sensi.

Diciamo che più che ad Alexander Shulgin e a Woodstock, questi due dischi mi fan pensare a Bill Django de “L’uomo che fissa le capre”. Non ci troviamo di fronte ad una band che possa reggere il confronto con gli Yes o coi Genesis, né tantomeno coi Led Zeppelin o i Cream: l’unico termine di paragone (cronologico, estetico e virtuosistico) che mi viene in mente è quello con gli Ozric Tentacles. Insomma, la critica può continuare a disinteressarsi dei Fantasyy Factoryy perché ci troviamo di fronte ad una band e a dischi sufficienti, appena appena sufficienti. Gli riconosciamo però un pregio: l’ossessione di suonare la propria musica, senza badare alle tendenze o alle novità.

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