Genesis
Duke
La discografia completa dei Genesis, tutta quanta intera dallacerbo From Genesis to Revelation del 1969 al marcescente Calling All Stations del 1997, la reggono in pochi, giusto i pasdaran tipo lottimo Mario Giammetti, amico personale dei musicisti del gruppo ed autore compulsivo ed appassionato di almeno una decina di libri a loro dedicati.
Una cospicua fetta di sostenitori preferisce piuttosto un atteggiamento radicale, con annesso culto di personalità, conservando il santino del frontman Peter Gabriel nel proprio portafogli e restando convinta che la parabola artistica dei nostri si sia interrotta nel 1975, a valle dellultimo lavoro in quintetto The Lamb Lies Down On Broadway propedeutico allabbandono di Peter, con tutto il resto nientaltro che noia.
Fra le persone che vogliono molto bene ai Genesis, ma non così tanto da rimanerne obnubilate mentalmente, vi sono a questo punto altre due categorie: quelli che arrivano a godere della loro musica fino al disco in studio del 1976 Wind & Wuthering, o meglio ancora allo spartiacque dal vivo Seconds Out dellanno successivo ed infine i più ottimisti e disponibili, che si spingono un paio danni e di dischi più in là approdando sino a questopera quale ultimo baluardo di cui andar fieri, assodato che nel successivo Abacab del 1981 per certo non vi sia più trippa per gatti.
Duke non è male già molto meglio del precedente And Then We Were Three, che possedeva unaura diffusamente malinconica e spenta e poi si congedava in maniera pessima con lodioso ritornello/spazzatura di Follow You, Follow Me, musica e testo a livelli sanremesi. La qualità tematica ed esecutiva dispiegata lungo queste dodici canzoni, seppur intermittente, è mediamente accettabile quello che non cè mai dall inizio alla fine è una chitarra decente! Considero un errore marchiano ed un peccato dautoindulgenza capitale il fatto di non aver voluto rimpiazzare il dimissionario Steve Hackett con un chitarrista solista degno di questo nome e fa specie che Rutheford, bassista capace e creativo, sia così timido e defilato alle prese colle corde più sottili e che i soci abbiano sopportato tale situazione con odiosa faccia tosta, pur di non rischiare un nuovo gallo nel pollaio. Il gruppo rinuncia così ad un colore decisivo nella sua tavolozza cromatica, lasciandola confinata dal punto di vista solistico e timbrico allestro di Tony Banks e delle sue tastiere.
Gli episodi riusciti del disco sono, per cominciare, la seconda traccia Duchess che peraltro inaugura la famigerata abitudine di appoggiarsi ad un loop di batteria elettronica, escamotage valido in fase di prova e di composizione per consentire a Phil Collins di agire da cantante senza doversi preoccupare di tenere il ritmo, ma che alla lunga ha creato una pletora di brani ripieni di questi tonfi e tonfetti elettronici che si aggiudicano un ruolo primario nel rendere obsoleta e datata la memoria musicale del gruppo. A parte questo fatto il brano gode comunque di buona ispirazione, il pianoforte di Banks lavora in maniera lirica e romantica e Collins vi canta bene, convinto e deciso.
Valido pure il breve intermezzo Guide Vocal per voce e pianoforte, pare un vero e proprio estratto da A Curious Feeling, il primo (ed ultimo) eccellente lavoro solista di Banks uscito sei mesi prima, col caratteristico suono del pianoforte digitale Yamaha, così banksiano da far rimpiangere che il musicista lo abbia di lì a poco accantonato per altre macchine più affidabili, à la page e trasportabili.
Dei contributi compositivi del bassista e chitarrista Rutheford lunico decente, anzi brillante, è il singolo Turn It On Again. Uno spasso averlo veduto a suo tempo ballato in discoteca da legioni di persone che puntualmente ad ogni giro si ritrovavano fuori tempo, visto che il ritmo viaggia quasi sempre dispari, in 13/8; le sue musiche accattivanti e la convinzione posta da Collins nell interpretarlo lavevano del resto reso unirresistibile attrattiva anche per cuori semplici e/o ballerini. E pensare che questo numero era stato originalmente pensato come parte centrale e scanzonata di una corposa suite intitolata appunto Duke, preceduto dai primi tre brani dellalbum e seguito dai due strumentali finali Dukes Travel e Dukes End. I Genesis non ebbero nelloccasione il fegato di proporre ancora una volta una suite di venti minuti ai loro estimatori, preferendo raggiungere frange di appassionati sempre più larghe e disimpegnate. Peccato, con quelle canzoni congegnate in tale modo il disco sarebbe meglio ricordato e piazzato nella loro discografia.
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