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R Recensione

6/10

Magenta

Chameleon

È sempre stato difficile venire a patti col prog, specialmente con l’aumentare dei decenni che separano le nuove uscite dall’età aurea dei Seventies. E specialmente se nella propria formazione musicale un genere così pieno di commistioni con la musica classica e con la musica sinfonica, almeno nella accezione più “classica” della sua definizione, con lunghi brani ricolmi di esibizioni virtuosistiche, proprio non ha mai fatto parte. In tal caso la tentazione di poter tranquillamente far a meno di una intera scena musicale è quella che tende a prevalere.

 

Ma si tratta di un atteggiamento castrante che non auspico. Non starò qui a tentare di dimostrare che non tutto che è stato archiviato nella scatola “Progressive” realmente risponde agli stessi modelli, anzi che lì dentro è stato anche incautamente risposto anche ciò che ha sempre cozzato con stilemi consolidati: almeno per i Magenta però l’inserimento in quella scatola è lecito. Infatti è opportuno sgombrare subito il campo da dubbi: i gallesi (in pista dal 2001) rientrano in pieno nella temperie musical-culturale della restaurazione prog (new-prog? new-new-prog??) che ha avuto inizio negli Anni '90, facendo propria tanto la "lezione inglese" di Yes (nettissima l'influenza della band che fu di Jon Anderson), Pink Floyd, Renaissance (anche se nei frangenti più tesi tirerei in ballo anche i canadesi Rush), quanto, facendo un balzo negli 80s, di IQ, Pendragon e Marillion. E' palese che con una bagaglio siffatto spesso il risultato finale tocca le aspirazioni dei Dream Theater, anche se (specialmente in questo disco), i Magenta non si distraggono in lunghe digressioni solistiche, mantenendo un più adeguato focus sulle canzoni e sulle melodie, che infatti funzionano meglio che in passato. E proprio al passato sembra già appartenere i precedente album "Metamorphosis" (2008) con le sue lunghissime suite: dimenticatevi dunque un’altra The Ballad Of Samuel Layne.  Quelli del 2011, per certi versi, sono "altri" Magenta: "Chameleon" è stato realizzato per essere ascoltato tutto d'un fiato senza troppi ostacoli, godendosi ogni singola traccia senza farsi remore sulla loro scorrevolezza. 

 

Purtroppo, sebbene la formazione composta dal tastierista, bassista, chitarrista e principale compositore Rob Reed, dalla vocalist Christina Booth (la cui timbrica non può non rammentare quella di Annie Haslam) e dal lead guitarist Chris Fry (le sue corde vibrano della sensibilità di Steve Howe), ce la metta tutta per suonare "moderna", cercando di riaccreditare il Progressive negli Anni '10 del Terzo Millennio, ossia all'inizio del quinto decennio (dal 1969 al 2011, fatevi voi i conti) di sopravvivenza del genere, proprio non ce la fa ad affrancarsi dai confronti con la gloriosa vecchia guardia. Non è colpa loro, almeno se non per una questione di scelte stilistiche: troppi i predecessori che hanno detto quanto c'era da dire e anche di più. Poi quegli elementi che una volta nati da ardite sperimentazioni, con lo spostarsi in avanti della freccia del tempo, sono divenuti dapprima delle esaltanti caratteristiche, poi si sono tramutati via via in sterili standard ed infine in imperdonabili cliché. Almeno facendo riferimento a quel prog definibile "classico", del quale parlavo ad inizio di recensione. In "Chameleon" spicca una ispirata vena melodica, cristallina e non schiacciata da pesanti infrastrutture, e una felicissimo equilibrio fra potenza e dinamismo. Colpisce per efficacia il trittico costituito dalla poderosa Guernica (IQ meets Yes), dalla sussultoria Breathe (Rush meets Yes) e dalla avvolgente Turn The Tide (Renaissance meets Yes): al di là di qualsiasi ironia, davvero questi brani hanno grandi pregi che altrove, negli stessi ambienti musicali, è arduo rinvenire. Nel finale si evidenziano altri momenti di notevole suggestione: The Beginning Of The End (credibile come singolo e nella quale finalmente si abbandona ogni esplicito riferimento al Progressive) e la conclusiva Red (nessuna cover dei King Crimson, state calmi…), che si snoda suadente e pacificante, nella quale è presente una impostazione compositiva vicina ai Marillion di "Marbles" del 2004 (ovviamente opportunamente fusa con quella degli Yes, non sia mai).

 

"Chameleon" potrebbe avere un doppio voto, in base a quale prospettiva si decida di percorrere: da una angolazione, un voto medio-basso teso a punire la mancanza di una più verace inventiva, da un'altra, un voto medio-alto che non può oggettivamente trascurare i tanti punti di forza di questo album. Quasi non sarebbe giusto fare una media. Ma nel ruolo che ho qui, ora, non mi sento di fare diversamente. Questo voto resta necessariamente instabile nel suo valore, passibile com'è di fluttuazioni, a seconda degli umori, dei gusti del momento, delle inclinazioni e, principalmente, a seconda di come ci si è svegliati la mattina.

 

Un consiglio posso aggiungerlo: si astengano coloro che assumono farmaci prog-antagonisti.

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