Motorpsycho & Ståle Storløkken
The Death Defying Unicorn - A Fanciful And Fairly Far-Out Musical Fable
Maledetta associazione di parole. Mi terrorizza, da sempre, la dicitura opera rock. Che minchia vuol dire, opera rock? Malmsteen? I Metallica con lorchestra? I Queen? What else? Mi vengono in mente orribili parrucconi alla chitarra, che fanno la gara a tirarsi il dito e a sparare accozzaglie di note a caso: violiniste vestite di legno, dal trucco severo, che mulinano il loro archetto nellimproba impresa di tenere il passo della sezione elettrica; cantanti dal patema neomelodico ed espressioni tremebonde stampate sul volto, a vociare arie senza senso con quel cigolio che solo la reale pesantezza stilistica è in grado di fornire. Opera rock. Intendiamoci, non si criticano i gusti personali o forse sì , ma perché mai uno dovrebbe sentire la necessità di prendere i peggiori rifferama hard da stadio, di quelli che puntualmente innestano la caciara sotto il palco, le più becere e consunte progressioni melodiche degli archi e giustapporre gli elementi uno sopra allaltro, come la figurina di Pizzaballa sullalbum della Panini? La grandeur intellettualoide, lirresistibile senso di magniloquenza sono anchesse qualità nobili. Nobili ai nobili, allora.
I Motorpsycho non sono nobili. Come potrebbero esserlo, tre (ex) ragazzoni provenienti da Trondheim, che per tutta la loro vita non hanno fatto altro che lavorare di sintesi, spargere sudore sopra ai propri strumenti e gettare il cuore oltre lostacolo? Ma cè fatica e fatica, e i muscoli spesso falliscono laddove serve la tattica, linvenzione, il maturo ripensamento. Cè un po di nostalgia nel rivedere allazione, almeno in giro per il web, i vecchi Motorpsycho, quelli con i lineamenti da giovani maledetti, una voglia insaziabile di far tuonare le chitarre e Håkon Gebhardt ancora dietro le pelli. La saudade, tuttavia, non porta a niente: identificare il vecchio automaticamente come il meglio è un tangibile segno di povertà espressiva. Ora Bent Sæther e Hans Magnus Snah Ryan, unici membri rimasti della formazione originaria sono, giocoforza, persone diverse, vuoi per topiche anagrafiche la boa degli anta è stata superata già da mo , vuoi per differenti fascinazioni musicali. E qui, ta dah!, arriviamo, schematicamente, al nocciolo. I norvegesi hanno sempre avuto il pallino del prog, concetto perlomeno inteso come maniera di organizzare il proprio materiale, attraverso logorrea e facilità di composizione superiore alla media. Solo negli ultimi anni, ciò nonostante, latto si è sostituito alla potenza: Black Hole / Black Canvas (2006), Little Lucid Moments (2008), Child Of The Future (2009) ed Heavy Metal Fruit (2010) sono stati lincipiente testimonianza dellennesima, spettacolosa metamorfosi. Non potevano scegliere anno migliore, i Motorpsycho, per portare a maturazione definitiva il nuovo (e già superato?) corso, affrancandosi dalla concezione moderna di album rock per approdare curiosità? ingordigia? convinzione? al formato operistico. Ecce vobis The Death Defying Unicorn - A Fanciful And Fairly Far-Out Musical Fable, ennesimo doppio disco che mette in scena, finalmente, una vera e propria narrazione favolistica, confezionata con il supporto attivo del jazzista scandinavo Ståle Storløkken già membro dei Supersilent e con gli arrangiamenti sontuosi della Trondheim Jazz Orchestra.
Ora che abbiamo ufficialmente perduto per strada la stima e lattenzione dei fan della prima ora, di quelli che ancora stringevano il santino di Demon Box sperando nel miracolo di (ri)conversione alla limpida schiettezza dei primi passi, possiamo ragionare con maggiore tranquillità di massimi sistemi. Sprovvisti dellapparato lirico unidea di come le varie canzoni siano collegate fra di loro, sul piano testuale, avrebbe giovato , i Motorpsycho version four, con la passione dei ragazzini e la perizia dei filologi, plasmano un lavoro di densità incalcolabile, per raggio destensione delle influenze e astrusa complessità delle trame: un tratto, questultimo, che avvicina sostanzialmente The Death Defying Unicorn più allastrazione del jazz rock che non, come già si è detto in giro, ad uno stampino puro e semplice del prog settantiano. Meglio, in questottica, il primo disco, che si fa apprezzare lungamente per episodi di indubbio spessore, come le frotte di clarinetti silvani in testacoda sulle spumeggianti risacche bebop di Out Of The Woods o The Hollow Lands, indissolubile intrico di elaborate melodie altisonanti i tom del giovane Kenneth Kapstad risuonano quasi con il crepitio di razzi scagliati in aria! e granitica forma hard-prog, nella rigorosa alternanza di cascatelle acustiche, crepe psichedeliche ed eleganti stoccate elettriche. I sedici minuti di Through The Veil raggiungono livelli ancora più alti di songwriting, conciliando tutte le sfaccettature della sbornia retrò perdurante da sei anni a questa parte: apertura bandistica, riff centrale di potenza inaudita (torna alla mente la semplicità inappuntabile della sezione principale di W.B.A.T.), folle fuga free jazz sospinta da archi e fiati, sciabolate in controtempo con chitarrismo free form ed annichilenti bordate noise, prima della sfaldatura conclusiva in punta di piedi. Ardito, sebbene non meno a fuoco, il resto della scaletta: la seconda metà di Into The Gyre, annunciata da un fiorire di violini seghettanti, capovolge leducato camerismo iniziale, con lincontenibile basso di Sæther a spingere il brano verso un gorgo psichedelico di Hendrix ed incubi spettrali; Doldrums lascia sola lorchestra, a dipingere atmosfere di contundente ed evocativa dissonanza, che in Flotsam si riducono a pennellate minimalistiche.
I livelli di attenzione cominciano lentamente a calare col sopraggiungere del secondo disco, causa anche un distinto appannamento della grana compositiva, in un confronto serrato ed invero un po soffocante con ambizioni, queste sì, davvero operistiche, che addormentano il ritmo elevato dellintero doppio. Oh, Proteus A Prayer (di cui Oh, Proteus A Lament altro non rappresenta che una sorta di reprise miniaturizzata) richiama i bozzetti vocali dellultimo Lake in Crimson, quel cimelio sbandierato ai margini di In The Wake Of Poseidon, e fa sentire tutto il peso degli arrangiamenti classici, in un trionfo di opulenza in cui, a tratti, non basta il contraltare selvatico del sanguigno dna della band, anchessa addomesticata a dovere. Sculls In Limbo drone col silenziatore e La Lethe pesante agonia teatrale di echi e rimbombi, con dischiusa inaspettata per le brume sentimentali di un sax che quasi suona morphinico serrano le cerniere di una mini-trilogia nel concept. È il modestissimo prog rock da camera di Sharks, in realtà, a far temere il peggio: possibile che lunico brano degno di nota sia destinato a rimanere Mutiny!, lussureggiante cornucopia hard rock dagli inserti jazz e dal dinamismo spettacolare, praticamente il pezzo più vicino al genoma originario dei Motorpsycho?
La risposta è sì e no. Perché, se è vero che The Death Defying Unicorn segna un punto di non ritorno fra i più classici (fosse la prima volta ), è anche vero che, a fare la differenza, è il dettaglio. La piccolezza. Come arrivare ad Into The Mystic, insomma, nientaltro che una revisione della linea armonica della precedente The Hollow Lands, e scoprirci gli svolazzi degli archi, lincalzare della sezione ritmica, lincisività degli impasti vocali, aggiunta numero uno, aggiunta numero due e poi, dal nulla, la luce. Un bagliore che sale dal profondo ed acquista sempre maggior vigore, defenestrando la muffa e vivisezionando il vecchiume. Tuttattorno pare infuriare la Premiata Forneria Marconi, ma, inoculato nel cuore della canzone, arriva altro: una serpentina di chitarra che sa di slacker lontano un miglio, roba dritta dritta da Timothys Monster se non prima, indie rock di razza purosangue che devasta gli equilibri del brano e lo fa deflagrare, in coda, con una sovrapposizione acustico/orchestrale da strapparsi le viscere ed emozionarsi dentro, nel profondo.
Maledetti figli di puttana. Come, ditemi, come si potrà mai voler male ad un gruppo del genere?
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