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R Recensione

6,5/10

Motorpsycho & Ståle Storløkken

The Death Defying Unicorn - A Fanciful And Fairly Far-Out Musical Fable

Maledetta associazione di parole. Mi terrorizza, da sempre, la dicitura “opera rock”. Che minchia vuol dire, “opera rock”? Malmsteen? I Metallica con l’orchestra? I Queen? What else? Mi vengono in mente orribili parrucconi alla chitarra, che fanno la gara a tirarsi il dito e a sparare accozzaglie di note a caso: violiniste vestite di legno, dal trucco severo, che mulinano il loro archetto nell’improba impresa di tenere il passo della sezione elettrica; cantanti dal patema neomelodico ed espressioni tremebonde stampate sul volto, a vociare arie senza senso con quel cigolio che solo la reale pesantezza stilistica è in grado di fornire. Opera rock. Intendiamoci, non si criticano i gusti personali – o forse sì… –, ma perché mai uno dovrebbe sentire la necessità di prendere i peggiori rifferama hard da stadio, di quelli che puntualmente innestano la caciara sotto il palco, le più becere e consunte progressioni melodiche degli archi e giustapporre gli elementi uno sopra all’altro, come la figurina di Pizzaballa sull’album della Panini? La grandeur intellettualoide, l’irresistibile senso di magniloquenza sono anch’esse qualità nobili. Nobili ai nobili, allora.

I Motorpsycho non sono nobili. Come potrebbero esserlo, tre (ex) ragazzoni provenienti da Trondheim, che per tutta la loro vita non hanno fatto altro che lavorare di sintesi, spargere sudore sopra ai propri strumenti e gettare il cuore oltre l’ostacolo? Ma c’è fatica e fatica, e i muscoli spesso falliscono laddove serve la tattica, l’invenzione, il maturo ripensamento. C’è un po’ di nostalgia nel rivedere all’azione, almeno in giro per il web, i “vecchi” Motorpsycho, quelli con i lineamenti da giovani maledetti, una voglia insaziabile di far tuonare le chitarre e Håkon Gebhardt ancora dietro le pelli. La saudade, tuttavia, non porta a niente: identificare il vecchio automaticamente come il meglio è un tangibile segno di povertà espressiva. Ora Bent Sæther e Hans Magnus “Snah” Ryan, unici membri rimasti della formazione originaria sono, giocoforza, persone diverse, vuoi per topiche anagrafiche – la boa degli “anta” è stata superata già da mo’ –, vuoi per differenti fascinazioni musicali. E qui, ta dah!, arriviamo, schematicamente, al nocciolo. I norvegesi hanno sempre avuto il pallino del prog, concetto perlomeno inteso come maniera di organizzare il proprio materiale, attraverso logorrea e facilità di composizione superiore alla media. Solo negli ultimi anni, ciò nonostante, l’atto si è sostituito alla potenza: “Black Hole / Black Canvas” (2006), “Little Lucid Moments” (2008), “Child Of The Future” (2009) ed “Heavy Metal Fruit” (2010) sono stati l’incipiente testimonianza dell’ennesima, spettacolosa metamorfosi. Non potevano scegliere anno migliore, i Motorpsycho, per portare a maturazione definitiva il nuovo (e già superato?) corso, affrancandosi dalla concezione moderna di “album rock” per approdare – curiosità? ingordigia? convinzione? – al formato operistico. Ecce vobisThe Death Defying Unicorn - A Fanciful And Fairly Far-Out Musical Fable”, ennesimo doppio disco che mette in scena, finalmente, una vera e propria narrazione favolistica, confezionata con il supporto attivo del jazzista scandinavo Ståle Storløkken – già membro dei Supersilent – e con gli arrangiamenti sontuosi della Trondheim Jazz Orchestra.

Ora che abbiamo ufficialmente perduto per strada la stima e l’attenzione dei fan della prima ora, di quelli che ancora stringevano il santino di “Demon Box” sperando nel miracolo di (ri)conversione alla limpida schiettezza dei primi passi, possiamo ragionare con maggiore tranquillità di massimi sistemi. Sprovvisti dell’apparato lirico – un’idea di come le varie canzoni siano collegate fra di loro, sul piano testuale, avrebbe giovato… –, i Motorpsycho version four, con la passione dei ragazzini e la perizia dei filologi, plasmano un lavoro di densità incalcolabile, per raggio d’estensione delle influenze e astrusa complessità delle trame: un tratto, quest’ultimo, che avvicina sostanzialmente “The Death Defying Unicorn” più all’astrazione del jazz rock che non, come già si è detto in giro, ad uno stampino puro e semplice del prog settantiano. Meglio, in quest’ottica, il primo disco, che si fa apprezzare lungamente per episodi di indubbio spessore, come le frotte di clarinetti silvani in testacoda sulle spumeggianti risacche bebop di “Out Of The Woods” o “The Hollow Lands”, indissolubile intrico di elaborate melodie altisonanti – i tom del “giovane” Kenneth Kapstad risuonano quasi con il crepitio di razzi scagliati in aria! – e granitica forma hard-prog, nella rigorosa alternanza di cascatelle acustiche, crepe psichedeliche ed eleganti stoccate elettriche. I sedici minuti di “Through The Veil” raggiungono livelli ancora più alti di songwriting, conciliando tutte le sfaccettature della sbornia retrò perdurante da sei anni a questa parte: apertura bandistica, riff centrale di potenza inaudita (torna alla mente la semplicità inappuntabile della sezione principale di “W.B.A.T.”), folle fuga free jazz sospinta da archi e fiati, sciabolate in controtempo con chitarrismo free form ed annichilenti bordate noise, prima della sfaldatura conclusiva in punta di piedi. Ardito, sebbene non meno a fuoco, il resto della scaletta: la seconda metà di “Into The Gyre”, annunciata da un fiorire di violini seghettanti, capovolge l’educato camerismo iniziale, con l’incontenibile basso di Sæther a spingere il brano verso un gorgo psichedelico di Hendrix ed incubi spettrali; “Doldrums” lascia sola l’orchestra, a dipingere atmosfere di contundente ed evocativa dissonanza, che in “Flotsam” si riducono a pennellate minimalistiche.

I livelli di attenzione cominciano lentamente a calare col sopraggiungere del secondo disco, causa anche un distinto appannamento della grana compositiva, in un confronto serrato – ed invero un po’ soffocante – con ambizioni, queste sì, davvero operistiche, che addormentano il ritmo elevato dell’intero doppio. “Oh, Proteus – A Prayer” (di cui “Oh, Proteus – A Lament” altro non rappresenta che una sorta di reprise miniaturizzata) richiama i bozzetti vocali dell’ultimo Lake in Crimson, quel cimelio sbandierato ai margini di “In The Wake Of Poseidon”, e fa sentire tutto il peso degli arrangiamenti classici, in un trionfo di opulenza in cui, a tratti, non basta il contraltare selvatico del sanguigno dna della band, anch’essa addomesticata a dovere. “Sculls In Limbo” – drone col silenziatore – e “La Lethe” – pesante agonia teatrale di echi e rimbombi, con dischiusa inaspettata per le brume sentimentali di un sax che quasi suona morphinico – serrano le cerniere di una mini-trilogia nel concept. È il modestissimo prog rock da camera di “Sharks”, in realtà, a far temere il peggio: possibile che l’unico brano degno di nota sia destinato a rimanere “Mutiny!”, lussureggiante cornucopia hard rock dagli inserti jazz e dal dinamismo spettacolare, praticamente il pezzo più vicino al genoma originario dei Motorpsycho?

La risposta è sì e no. Perché, se è vero che “The Death Defying Unicorn” segna un punto di non ritorno fra i più classici (fosse la prima volta…), è anche vero che, a fare la differenza, è il dettaglio. La piccolezza. Come arrivare ad “Into The Mystic”, insomma, nient’altro che una revisione della linea armonica della precedente “The Hollow Lands”, e scoprirci gli svolazzi degli archi, l’incalzare della sezione ritmica, l’incisività degli impasti vocali, aggiunta numero uno, aggiunta numero due… e poi, dal nulla, la luce. Un bagliore che sale dal profondo ed acquista sempre maggior vigore, defenestrando la muffa e vivisezionando il vecchiume. Tutt’attorno pare infuriare la Premiata Forneria Marconi, ma, inoculato nel cuore della canzone, arriva altro: una serpentina di chitarra che sa di slacker lontano un miglio, roba dritta dritta da “Timothy’s Monster” se non prima, indie rock di razza purosangue che devasta gli equilibri del brano e lo fa deflagrare, in coda, con una sovrapposizione acustico/orchestrale da strapparsi le viscere ed emozionarsi dentro, nel profondo.

Maledetti figli di puttana. Come, ditemi, come si potrà mai voler male ad un gruppo del genere?

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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motek 7/10

C Commenti

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swansong alle 12:20 del 21 febbraio 2012 ha scritto:

Sono sempre un gran bel sentire. Eccome! (Dal vivo, poi, sono qualcosa di indescrivibile, ma come fanno, in tre, a fare tutta quell'iraddiddio?). Questo non lo conosco, ma i brani postati paiono veramente interessanti e quell'Into the Mystic mi fa già sbrodolare..VDGG, voglio un tuo parere, all'istante! Marco, come sempre, molto in palla, strettino col voto però, dai..

Marco_Biasio, autore, alle 12:51 del 21 febbraio 2012 ha scritto:

RE:

No, credo che alla fine il voto ci stia. Più 6,5 che 6, a dirla tutta, ma siamo lì. Tieni conto che nel secondo disco c'è una preponderanza sostanziale dell'orchestra che enfatizza un po' troppo la polpa dei brani: almeno metà di quella scaletta è troppo fragile. Poi in coda si riprende alla grande, ma "Sharks" è oggettivamente brutta. Metti in conto anche che questo disco, come scrivo nella recensione, verrà ingiuriato e criticato da moltissimi... Io lo ritengo, semplicemente, l'ultimo ed estremo gradino della sbornia prog intrapresa nel 2006 e che, coerentemente col loro percorso di continua mutazione, il prossimo disco sarà radicalmente differente.

swansong alle 18:12 del 21 febbraio 2012 ha scritto:

RE: RE:

Guarda oggi mi sono ascoltato più di qualcosa in streaming ed in effetti son d'accordo con te. Comunque sufficienza molto abbondante..

Utente non più registrato alle 18:53 del 11 aprile 2012 ha scritto:

Appena iniziato l'ascolto di questo doppio disco, mi sono tornati in mente Septober Energy dei Centipede, e i Diagonal. Trovo questo lavoro molto coraggioso; andrebbe premiato per il tentativo messo in atto, più che per i risultati, che comunque ci sono, soprattutto con Through The Veil, ma anche Mutiny! e Into The Mystic.