R Recensione

7/10

Death

For The Whole World To See

Tranquilli, niente death-metal. E niente Chuck Schuldiner, anche perché il sottoscritto, benché si stia attrezzando, non ha ancora acquisito la capacità di resuscitare i morti. La Drag City, al contrario, ha imparato a resuscitare i dischi. E che dischi.  

Dennis, Bobby e David Hackney sono tre fratelli che nel 1971 decidono di formare una band. I tre sono di colore (cioè, sono neri) e siamo agli inizi degli anni ’70, per cui partono da sonorità blues e rhythm & blues. Il fatto è che siamo a Detroit, per cui il trio subisce immediatamente l’influenza di bands come Stooges ed MC5 virando nettamente verso sonorità proto-punk. Tra il 1972 e il 1973 i Death provarono a proporre la loro musica alla Columbia Records. L’allora presidente Clive Davis apprezzò la furia selvaggia di quella manciata di brani, ma impose alla band di cambiare nome. Una beffa, se si pensa a quale e quanto utilizzo nel mondo musicale si farà in seguito di quella parola. I tre fratelli si opposero alle richieste di Davis e si trasferirono nel Vermont fondando i The 4th Movement, formazione dedita ad una curiosa forma di reggae-gospel di ispirazione cristiana.  

A distanza di 35 anni (!) vengono pubblicate le registrazioni di sette tracce risalenti al 1974. Il suono dei Death conserva una matrice funk e rhythm & blues (l’ingegnere del suono, giusto per capirci, era John Vitti, lo stesso che lavorava con i Parliament/Funkadelic), ma è essenzialmente black-rock influenzato da Iggy & The Stooges (“Keep on Knocking” ha la stessa fierezza deviata di “1969”), ma anche accostabile al punk dei The Damned (“Rock-n-Roll Victim”) e all’hard rock (“You’re a prisoner” sembra un incrocio bastardo tra i primi Iron Maiden e certe bizzarrie di Ozzy Osbourne).

Dal punto di vista storico e col senno di poi, le tracce più interessanti risultano essere “Freakin Out” (anticipatrice del fenomeno pop-punk che invaderà l’Inghilterra tempo dopo) e soprattutto “Let the world turn”: una mini-suite che fonde aperture riverberate alla Pink Floyd, intermezzi speed-punk, assoli di batteria e chitarra e un principio di intuizioni prog.

Anche se alla fine, quella che si ricorda a lungo è l’unica canzone già pubblicata nel 1974 (come singolo autoprodotto): “Politician in my eyes”, oltre ad avere un testo piuttosto “irrispettoso” nei confronti della classe politica (altri germi, quelli del combat rock), è un pezzo tiratissimo, suonato con una sensibilità funk da far spavento ma con una concretezza rock che dimostra quanto all’epoca fosse significativa l’influenza di Led Zeppelin e Who.  

Della serie: non è mai troppo tardi.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Ivor the engine driver (ha votato 7 questo disco) alle 10:17 del 9 aprile 2009 ha scritto:

non so, all'inizio mi aveva esaltato, poi mi sono accorto che forse non ci sono più così tante pepite nascoste fra i 60 e i 70. Cmq buon album.

luca.r alle 14:41 del 12 settembre 2017 ha scritto:

Vile marrano! Gli unici e soli DEATH sono quellli di Chuck Shuldiner (R.i.p.). Miscredente!