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R Recensione

8/10

Crippled Black Phoenix

I, Vigilante

La diceria che i supergruppi incidano, per forza di cose, superdischi, sebbene puntualmente smentita dai fatti, è davvero dura a morire. Siamo, però, d’accordo su un punto: qualità artistica o meno, un ritorno di superhype lo si ottiene comunque. Ovvero: copertine, interviste, tour celebrati in piccolo e in grande, attenzione dei media specializzati. Diteglielo, allora, ai Crippled Black Phoenix. Ex batterista degli Electric Wizard, e vabbè: bassista dei Mogwai, aggiungiamo un altro punto; produzione della Invada di Geoff Barrow, by Portishead, le certezze cominciano a vacillare; tre dischi all’attivo in appena tre anni, decine di generi messi al muro in un solo fluido movimento, i conti non tornano. Il pensiero è comune: chi diamine sono questi? Si fa, in effetti, fatica a comprendere per quale arcano motivo vi sia tutto questo livore e questa inspiegabile sottoesposizione verso un nocciolo di musicisti in continua evoluzione, arrivati ad una pirotecnica contingenza di densità estrema e sfumato taglio teatrale, tale da necessitare il ricorso alla definizione (suggerita, peraltro, dallo stesso collettivo) di endtime ballads: schiocchi dalla fine dei tempi, nenie isolazioniste, grandi numeri di psichedelia apocalitticamente proiettata verso un non-futuro.

I, Vigilante”, tuttavia, apre finestre comunicative del tutto nuove e sembra, in più punti, il vagito inaugurale di una nuova fenice, anziché la continuazione ideale di quel percorso imboccato da “A Love Of Shared Disasters”. Il taglio generale del disco, per iniziare: rispetto all’eroismo imprendibile di “Night Raider”, o alla quieta desolazione del gemello “The Resurrectionists”, gemme capaci di innalzare un Moloch grossomodo floydiano alla trattazione epica del magma musicale, il quarto capitolo di una saga che speriamo si preannunci ancora lunga assume un cipiglio decisamente più compatto, heavy in molti passaggi. Un impatto che non tracima mai nel metal vero e proprio, ma si dirige preferenzialmente verso una manipolazione pressoché continua di certo hard rock piegato ai voleri di un dinamismo chitarristico mai così pronunciato, negli scarichi e nei rilasci. Un tempo lo avremmo chiamato, ingenuamente, post rock. Ora, invece, le sfumature si inerpicano a tal punto le une sulle altre che non risulta peccato, ad esempio, mescere l’atmosfera revivalistica dei Black Mountain nel contenitore a tenuta stagna della vibrazione gilmouriana. Sarà anche la dipartita di Dominic Aitchison, al basso, a favore di Chris Heilmann, già roadie di Alice Cooper, eppure un certo cambiamento di rotta si avverte: i Crippled Black Phoenix si fanno, per così dire, giustizia da soli.

Sono quarantacinque minuti, dunque, con in canna meritevoli cartucce e qualche sorpresa. A cominciare dal fondo. Dalla discutibile scelta di coverizzare “Of A Lifetime”, levigata ballata dei Journey, con voce femminile ed un imprinting spudoratamente debitore a “The Wall”, che plastifica un po’ troppo le potenzialità di una fra le più classiche melodie AOR degli anni ’70. Ma anche da quella di affiancarla ad una traccia nascosta come “Burning Bridges”, svolazzante folk, lustrato a festa ed ornato di violini, sulle tracce dei Listing Ship. Non che il gruppo non ci avesse abituato a ripetuti e decisi contrasti all’interno dei propri dischi, ma il risultato spiazza perché (volutamente?) eccessivo. È forse significativa la citazione latina riportata sul loro MySpace riguardo a “I, Vigilante”: Lupus Pilum Mutat, Non Mentem. Basta “Fantastic Justice”, infatti, per far riesplodere, da lontano, la passione per le endtime ballads: onirico incalzare degli archi, fanfare aggrappate a passi doppi di pianoforte come per l’ultima danza della loro vita, un Joe Volk sempre più leader e sempre più grunge che canta di abissi e leggende, sovrapposizione strumentale coronata in un finale palpitante, strappacuore.

Se, poi, siete tra i fan di primo pelo del gruppo, la notevole sostanza distribuita nel resto del filotto non potrà far altro che soddisfarvi. L’ideale ampliamento di “Bat Stack” è “Troublemaker” (approposito di provocazioni…), il suono riverberato della brughiera squarciata da nebbie doom, appena prima che la piramidale costruzione chitarristica cementifichi le proprie basi con collanti psych scagliati al massimo volume. “We Forgotten Who We Are” recupera, in parte, la struggente, nichilista dolcezza di “Crossing The Bar” ed il grattare di “444”, per imbastire un’ondivaga epopea che beccheggia, con lo spaesamento dei tempi moderni, tra Black Heart Procession, Sigur Rós, violoncelli che straziano come sei corde e sei corde allungate a formare violoncelli. “Bastogne Blues”, tributo ai soldati che combatterono e persero la vita durante una sanguinosa resistenza alle forze naziste sulle pendici delle Ardenne, nella Seconda Guerra Mondiale, spicca però, da subito, sopra a tutto: splendido melodramma d’altri tempi, strascicato per lunghi minuti da una recitazione melica e raggrumatosi in un finale di maestosa coralità, dove gli intagli di un mandolino spuntato fuori dal nulla celebrano una sontuosa litania di resurrezione folk.

Come sia riuscito il gruppo, dopo le due fatiche monstri dello scorso anno, a ripetersi a questi livelli, è un mistero più che dogmatico. Per quanto ci riguarda, è ancora un centro importante. Voi coglietelo, e non temete: non verrà a saperlo nessuno.

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Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 21 voti.

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target (ha votato 7 questo disco) alle 21:08 del 10 settembre 2010 ha scritto:

Ho ascoltato ancora poco, ma quanto basta per essermi già innamorato di "Bastogne Blues". Verissimi i riferimenti ai suoni più heavy, e difatti l'aria AOR di "Of a lifetime" mi ha fatto storcere un po' il naso. Non è la mia tazza di tè. Le endtime ballads, invece, sì, e non vedo l'ora di ascoltarmi per bene le altre. "Troublemaker" chiuse il loro concerto a Montebelluna dello scorso maggio. Notevolissima. Joe Volk, davvero, sempre più grunge, ma il vero leader indiscusso resta Justine Greaves, vera anima della band. Il roadie di Alice Cooper è uno stangone cinquantenne suonato dall'aria scandinava e strafatta. Sparatissimo. E ti segnalo un nuovo chitarrista (ebbene sì) napoletano, con cui ho ciaccolato un po' dopo il concerto. Lui si chiama Karl Damata; gli assoli sono suoi; gran mano. Marco spettacolare: leggerti (le poche volte che so di cosa parli, eheh) è sempre bellissimo.

target (ha votato 7 questo disco) alle 21:09 del 10 settembre 2010 ha scritto:

Vabbeh, ho trasformato Justin in Justine (!) e Demata in Damata. Meglio che vada a ubriacarmi.

Emiliano (ha votato 8 questo disco) alle 17:35 del 20 settembre 2010 ha scritto:

Troublemaker è una delle canzoni dell'anno.

target (ha votato 7 questo disco) alle 21:30 del 20 settembre 2010 ha scritto:

Per me lo è "Bastogne Blues". E' qui sopra, gente: ascoltatela. 12 minuti da sogno. E pazienza se di questa band continua a non parlare nessuno.

Charisteas (ha votato 8 questo disco) alle 19:18 del 24 ottobre 2010 ha scritto:

Appoggio in pieno Bastogne Blues, davvero gran canzone. E anche il resto non si discosta da quel livello. Unica che non mi piace troppo è la cover dei Journey.

marina alle 13:51 del 28 ottobre 2010 ha scritto:

RE:

ciao, ho scoperto da poco i CBP e mi piacciono moltissimo . sto cercando le parole ma su internet non riesco a trovarle. ho scaricato dal loro space gli album e quindi non ho i testi- magari nei cd c'erano- mi aiutate a trovarli? prima di tutto vorrei quelli di A Love of Shared Disasters. mi piacciono queste atmosfere malinconiche e le narrazioni. I Vigilante è un disco molto interessante ma non capisco molto, anzi per niente, burning bridge, che salto a piè pari ogni volta che riascolto il disco.w le endtime ballads. Ma invece l'inizio è un dialogo di star trek?

Marco_Biasio, autore, alle 22:01 del 28 ottobre 2010 ha scritto:

RE: RE:

Ciao Marina, grazie del commento. Purtroppo non so risponderti sulle domande che poni su questo disco (non sapevo che anche "Burning Bridges" fosse una cover). Per quanto riguarda i testi dei CBP in generale, ne so un paio dal doppio dell'anno scorso, in particolar modo l'introduzione parlata della lunga suite d'apertura di "Night Raider", che però dev'essere o una citazione di aforismi altrui, oppure una teoria parafilosofica (nulla di scritto dal gruppo, per farla breve: o almeno così penso). "Of A Lifetime" stona, è vero, ma in virtù di tutto il resto riconfermo l'8.

target (ha votato 7 questo disco) alle 14:38 del 28 ottobre 2010 ha scritto:

Eh, i testi sono difficili da trovare anche perché i Crippled, in America, non hanno mai sfondato, ed è soprattutto lì che la gente si sbatte a ricopiare e digitalizzare i testi. Nei libretti dei cd originali ci sono solo brevissimi spezzoni (una-due frasi per canzone, non di più). Difficile capire il senso di "Burning Bridges", in effetti, che comunque non è un pezzo loro: è una cover di un brano dei The Mike Curb Congregation dalla colonna sonora de "I colonnelli", 1970, con Clint Eastwood. A me continua a urtare "Of a lifetime", decisamente troppo AOR. Il mio 7 al disco è per questo.

swansong (ha votato 8 questo disco) alle 12:09 del 29 ottobre 2010 ha scritto:

Piacevolissima conferma!

Per quanto mi riguarda, si candida a disco dell'anno..leggermente inferiore rispetto al mastodontico splendido doppio dello scorso anno, ma rimane un gran bel sentire. Suonato, prodotto ed arrangiato coi fiocchi! Spero di riuscire a vederli dal vivo, anzi DEVO riuscire a vederli dal vivo! Complimenti a Marco per l'ottima e puntuale segnalazione. Non sempre condivido alcuni tuoi entusiasmi (John Zorn, p. es.), nè alcune tue "stroncature" (che t'hanno fatto i PT?), ma è comunque sempre un piacere leggerti!

Alessandro Pascale (ha votato 9 questo disco) alle 14:15 del 16 dicembre 2010 ha scritto:

spettacolare.

lev (ha votato 8 questo disco) alle 23:42 del 15 gennaio 2011 ha scritto:

spettacolare sul serio

of a life time non è male, ma stona davvero un pò. come burning bridges d'altronde che sembra proprio non azzeccarci una pippa con il resto del disco. però i primi quattro pezzi... il finale epico di bastogne blues è una delle cose più belle che ho sentitito negli ultimi anni.

REBBY (ha votato 6 questo disco) alle 10:06 del 25 gennaio 2011 ha scritto:

Partiamo dal fondo: le ultime due, le cover, oltre ad azzeccarci poco o nulla col resto, "rovinano" il disco. Tutto quello che dirò, d'ora in poi, si riferisce agli altri quattro brani, che ci mostrano un band padrona della materia che trattano. Questa materia è il post-rock. No, è il tardo-progressive eheh. Al primo ascolto l'impressione che ho avuto è stata quella di stare a sentire una specie di mix-shake tra Deep purple e Pink floyd (di Animals). Tutti azzecati (da me condivisi) i riferimenti di Marco: la chitarra gilmouriana, l'hard rock con le sue immancabili "soft" ballads, l'atmosfera revivalistica dei Black mountain,... I successivi ascolti mi hanno svelato un'opera "dicotomica", che alterna in me apprezzamenti e storture di naso (e ricordi del "tecnicismo eccessivamente compiaciuto" proprio di una parte del progressive-rock, not in opposition eheh, della seconda metà degli anni '70). L'unico brano che trovo del tutto impeccabile, dall'inizio alla fine, è Fantastic justice.

swansong (ha votato 8 questo disco) alle 12:58 del 19 marzo 2012 ha scritto:

We Forgotten Who We Are è fuori dalla grazia di Dio..