Crippled Black Phoenix
(Mankind) The Crafty Ape
Chapter I A Thread
Una voce robotica, innaturale, annuncia lapertura delle danze. Il primo squarcio, possente riff di chitarra dalla tetragona presenza doom e ottoni in assetto belligerante, scompiglia le carte in tavola quasi rivisitando, più di trentanni dopo, la maideniana The Ides Of March, si potrebbe dire e risucchia ogni molecola dossigeno dallaria, costringendo a concentrarsi sul magniloquente scenario in corso di preparazione. Le campane suonano a festa, poi tacciono. Tempo una manciata di secondi ed il buio cala, fatalmente, per lennesima volta. Difficile orientarsi, tra sottilissime linee di drone e riverberi corali in lontananza. Nella completa assenza di dinamismo, un arpeggio. Anzi, larpeggio. Poi ne segue un altro, un altro ancora, unintera frase melodica. La raccolta sospensione acustica comincia lentamente a crescere, portata in palmo di mano, sino al crescendo conclusivo in cui Karl Demata distacca le note per isolazionismo e fa rivivere, in tutta la sua imponenza, il David Gilmour di Wish You Were Here. Infine, la voce, quella di sempre, quella di Joe Volk, sballottato tra accenni di elettrica, slide di semitoni, crepuscolari lande pianistiche, solida ed onirica psichedelia senza fretta e senza convulsioni.
Del dubbio esistenziale che coglie lappassionato della prima ora. Può una breve ma già estremamente prolifica vita musicale decidere di sciogliere le gomene, gettare le ancore ché pur sempre di endtime ballads marinare, o di ciò che ne rimane, si sta parlando ed anteporre, per una volta almeno, un narcisismo conservatore allo sprezzante progressismo vero marchio di fabbrica di questi otto, intensissimi anni, fra sesquipedali tour ed impressionanti geometrie di studio? Potrebbe. Quando, però, in ballo vi sono i Crippled Black Phoenix o, meglio, il nuovo gruppo riplasmato dalloriginario progetto ideato dalle allora colonne portanti Dominic Aitchison e Justin Greaves, riuscire a rimanere neutrali è impresa più improba del previsto. Lo straniamento perdura perché, lungi dal bruciare e rinascere daccapo dalle proprie ceneri, per la prima volta (Mankind) The Crafty Ape non aggiunge nulla a tutto ciò che già sapevamo: sterzata verso suoni meno struggenti, più roccia nelle sei corde, spettacolari contrasti tra apparato elettrico e archi di contorno, il disperato slancio titanico di unepica morale daltri tempi, finanche il formato del doppio disco. Una fase che si chiude per sempre o un diverso tentativo di organizzare la rotta dellimbarcazione?
I dubbi possono essere comprensibili. Molto concisamente, tuttavia, è Get Down And Live With It a fornire la miglior controbattuta a chi si sente in dovere di sostenere un calo fisiologico del gruppo, arrivato al quinto full length in appena sei anni. Non tanto la prima parte, pure molto apprezzabile, dove la ritmica beccheggia, le chitarre graffiano con piglio settantiano e lincrocio vocale riporta alla mente i Black Mountain dei tempi migliori: è la seconda a rinnovare il miracolo degli equilibri, di una formula che non ha eguali nel mondo (evidenziatelo bene in grande: nel mondo!), con un violoncello mozzafiato ad inserirsi, tormentoso, nellimpasto melodico, un pianoforte quasi neoclassico che attira su di sé pazzeschi riverberi ossianici ed uno spegnersi progressivo, trionfale, eroico. Nulla, dora in avanti, può andare sbagliato, e i lievi cedimenti strutturali del singolo A Letter Concerning Dogheads aperti dal dark ambient in manipolazione di (In The Yonder Marsh) , che allinizio pare quasi assomigliare ad un numero (hard) rock antico stampo, vengono interamente riscattati, anche in questo caso, nella seconda metà, con un incubo in slow-motion avvolto attorno ad una sola, battente nota (trucchetto assimilato dalla vecchia, meravigliosa Whissendine) ed una matassa psichedelica sfumata su dissonanze e cadenze ieratiche.
Chapter II The Trap
Dalla conferma allinnovazione. Come in "I, Vigilante", la copertina parla chiaro: homo homini lupus. La trappola scatta, tagliente ed affilata, sui possenti muscoli di Laying Traps, un post-grunge dal respiro combattivo sul quale levita la maledizione dellalbatros di Coleridge e le risacche salmastre si rapprendono sulle corde vocali di Volk, mai così lontano e così vicino, rilanciato da un micidiale lavoro percussionistico Greaves a briglia sciolta, in un delirio di tamburi e piatti, come a scandire gli infaticabili colpi dei rematori e da improvvise chiusure scorciate, con accenni western e sublimi schianti pianistici. Anche Release The Clowns scende sul campo di battaglia con una lucente armatura sostenuta da un riff pressoché invariabile, unandatura soldatesca priva di qualsiasi crepa ed una coda finale dove Demata, munito di bottleneck e dei vinili degli Zeppelin, si scatena con un assolo blues che più traditional non si può. La vera sorpresa di questo frammento dopera è, in realtà, Born In A Hurricane, episodio dove lanima dei Crippled Black Phoenix sperimentali e pronti ad scommettere il tutto per tutto riemerge dagli abissi delloceano, con una nenia riarrangiata in una scoppiettante chiave funk, per chitarre acide, tempi dispari ed interstizi di fiati. (What?) è decisamente la parola che rimane sulla punta della lingua, interstizio strumentale che conduce, con un rustico ponte di banjo e sincopato rotolare di spazzole, alle epopee del secondo disco.
Chapter III The Blues Of Man
Il senso di perfetta circolarità nel passaggio tra un supporto e laltro è la conferma, se non altro parziale, dellambiziosa e coerente linea di pensiero sposata dal gruppo, nel corso degli anni e delle varie tappe discografiche. Incidere con forza lanimo umano per estrarne il midollo, cantare di sofferenze inenarrabili, giocare con ogni tipo di registro stilistico ed esaltare le incantevoli profondità dellemozione la componente più intrepida ed leggendaria, se non altro : ecco il perché della terza sottotitolazione, The Blues Of Man. A kind of blue, unoncia di tristezza, lombra del fallimento e linevitabile risurrezione. Uomini che si vestono di mito ma che, aldilà delle loro imprese personali, rimangono uomini, con tutte le loro fragilità, debolezze, insicurezze, depressioni. E sentirne a tal punto il peso sulle proprie spalle, non è forse anchesso un segno tangibile di grandezza di pensiero? Questa è, filosofia spicciola a parte, la realtà fattuale. Né più né meno.
Quando A Suggestion (Not A Very Nice One) e il suo pericolante barcollare esplodono a tutto tondo dal confuso marasma iniziale, alternando momenti di pacificata stasi ad altri di crudo assalto in wah-wah e lick in pentatonica, la sensazione che se ne ricava è impressionante: formalmente nulla di più di un sentito omaggio ai padri del Delta (ed una genuflessione a chi ne ha elettrificato a dovere il verbo ), contenutisticamente uno stato di coscienza ai limiti dellhard rock dove la voce va e viene, la chitarra va e viene, la batteria, quella lì, cè sempre: lo spirito delle endtime ballads è tracimato in qualcosa di nuovo e vecchio allo stesso tempo, in formati non più propri e nemmeno del tutto ignoti. Delirio? Affatto. La scaletta è lì a confermarcelo. (Dig, Bury, Deny), altra pausa acustica e retaggio di americana pigra, indolente, un po minacciosa, è il tassello mancante per arrivare ad Operation Mincemeat, lenta sfilata post rock che infilza tutti i migliori numeri dei Crippled Black Phoenix del periodo Night Raider The Resurrectionists, condensandoli in sette minuti di piacere, tango appassionati tra archi e pianoforte, elaborati arrangiamenti orchestrali e morbide carezze vocali. E che il gran colpo stia finalmente per arrivare lo si percepisce, quasi inconsciamente, ma con una sicurezza interiore tanto intuitiva quanto infallibile.
Invocato, il capolavoro giunge. We Will Never Get Out This World Alive è retaggio di una Constellation mai dimenticata, grappoli di sentimenti affidati ad una sequenza di tasti bianchi e neri e, sul fondo, ad una chitarra che dipinge drone estatici. È il preludio perfetto a Faced With Complete Failure, Utter Defiance Is The Only Response, quindici minuti di musica pesante non pesante, ardente doom balcanico trasfigurato da astrali parate bandistiche, la pausa, paziente ricostruzione via slide di un universo ormai dato per perso, i Mogwai e i Pink Floyd, Troublemaker ed organetti stroboscopici, passo elefantiaco con battiti ansanti della sezione ritmica e ringhioso vocoder in coda, boato decostruttivo che si inghiotte lintera strumentazione, il silenzio. Due minuti di silenzio, nessuna ghost track. Il messaggio, terminale, che ormai il punto di non ritorno è stato raggiunto, ed ulteriori passi in avanti risulteranno per questo impossibili?
Se così davvero fosse, lode e gloria ai Crippled Black Phoenix.
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