Grandaddy
The Sophtware Slump
Nessuna finzione: fino a pochi mesi fa il nome dei Grandaddy (da Modesto, California) contraddistingueva solo un’altra delle mie tante lacune (e per una che ne colmo, dieci se ne aprono...). Avevo sempre letto un gran bene di loro e molti “del mio giro” me ne hanno sempre parlato bene. Però succede, a volte, che più si crea questo alone di culto e meno si ha voglia di acconsentire ad un ascolto. Sarà superbia, chissà. Poi passa il tempo, si manca all’appuntamento dei concerti (sempre eventi unici), si sciolgono i gruppi e ci si ritrova a fare i conti con una musica che non ha più nessuno a dargli vita e voce.
E a dieci anni dalla sua uscita, mi sono ritrovato, alla fine, in “intimità” con questi Grandaddy. Il primo effetto è subito di grande simpatia: mi è sembrato come quando si conosce qualcuno e subito di essere amici dall’infanzia. Vi è mai capitato? Il suono, gli stratagemmi low-fi, il cantato dalla pronuncia così “U.S.A.”, il pop ondivago, gli innesti di folk dalla verve appena vetero-psichedelica, tutto mi ha richiamato alle orecchie e al cuore, altri “del loro giro”: Mercury Rev, The Flaming Lips, Pavement, Sparklehorse. Tutta gente con la quale ho avuto il piacere di stringere amicizia, metaforicamente parlando, avendo fatto pascolare al lungo la loro musica nella mia testa.
Jason Lyte (voce, chitarre e capitano del veliero), Tim Dryden (tastiere), Jim Fairchild (chitarra), Kevin Garcia (basso), Aaron Burtch (batteria) sono una cricca di contadini intellettuali, in grado di disquisire sull’orchestrazione di jingle televisivi o, all’opposto, di mangiare pop-corn alla prima di “Madama Butterfly”: me li vedo proprio così, con quelle barbone che nascondevano bene la loro, in fin dei conti, giovane età. The Sophtware Slump spazia dai brani dall’ampio respiro (vedi il pop-astrale dell’opener He’s Simple, He’s Dumb, He’s The Pilot, sublime e radioheaddiano, a cui fa eco, giù in fondo, a chiusura di disco l’intensamente orchestrata So You’ll Aim Toward The Sky), a perfette canzoni “sfasate” nelle quali risuona l’esperienza dei Mercury Rev (Hewlett’s Daughter, The Crystal Lake), da composizioni che erano lì lì per diventare una suite (vedi il racconto low-tech dell’uomo-macchina Jed, narrato in Jed The Humanoid e in Jed’s Other Poem), a introverse ballate oniriche (Miner At The Dial A-View).
A ben ripensare, dovrei richiamare quelli che all’epoca mi consigliavano questo disco: ma con quale faccia gli dico, dopo dieci anni, che avevano ragione? Che questo disco avrebbe dato un tocco di colore ai giorni grigi? Che avrebbe potuto farmi sollevare qualche centimetro da terra in quei momenti in cui tutto sembrava pesante?
Vabbé, non glielo dirò, ma allo stesso tempo non vi ammorberò neppure con suggerimenti che, come il me di allora, magari non seguirete. Sappiate solo, che quando vorrete, ci sarà un disco in grado, nel suo piccolo, di donarvi un caleidoscopio attraverso il quale il mondo vi sembrerà migliore. O, almeno, più strano e colorato.
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