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R Recensione

8/10

John Zorn

The Dreamers

È incredibile. È davvero incredibile.

Non è passato nemmeno un mese dall’uscita del diciannovesimo, celestiale, consigliatissimo FilmWorkThe Rain Horse”, per solo basso, pianoforte e violoncello, che il nostro sassofonista, compositore, genio poliedrico, pazzo da legare di (s)fiducia John Zorn se ne esce già con un altro disco, questo “The Dreamers”: cinquantadue minuti di nuova musica, suddivise in undici canzoni –per una volta, nel senso proprio della parola!- sfornate alla velocità della luce. Il ricchissimo cast di amici musicisti che, anche questa volta, affollano gli studi di registrazione ad ogni uscita discografica di Zorn è, come al solito, talmente valido e imponente da far girare la testa. E, anzi, si potrebbe dire che il cinquantacinquenne newyorchese si sia affidato al vecchio motto: squadra che vince, non si tocca. Perciò, via libera all’immenso Marc Ribot alla chitarra (divenuto ormai un’intoccabile musa ispiratrice del flusso compositivo di Zorn), Jamie Saft alla tastiere (già presente, ricordiamo, in quel meraviglioso “Six Litanies For Heliogabalus” dello scorso anno), Trevor Dunn al basso – citato in queste pagine, poco tempo fa, per l’esordio del bel progetto avanguardistico degli americo/danesi Box –, Kenny Wollesen al vibrafono e, rispettivamente, Cyro Baptista alle percussioni e Joey Baron alla batteria. Tutti personaggi che, col tempo, abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare.

Come già ho avuto modo di esprimere in più occasioni, quello che veramente stupisce gli ascoltatori appena più addentro alla sterminata discografia di John Zorn, non è tanto la quantità – seppure spesso impossibile da gestire! – ma l’incredibile e miratissima qualità della quasi totalità dei suoi album. Capacità di svariare in diversi generi, di fondere fra loro varie influenze per darle una nuova ed insolita forma, di raccogliere miriadi e miriadi di citazioni, spesso anche antitetiche, e unirle assieme senza alcun tipo di problema sono i tratti distintivi del compositore, ormai talmente allenato a pensare sulla musica – si parla di oltre trecento dischi dal 1972 ad oggi, compresi progetti paralleli e collaborazioni esterne – da poter partorire più opere all’anno. “The Dreamers” non fa certo eccezione ma, anzi, è il perfetto ritratto di quanto già detto sopra: un micidiale coacervo di spunti e sonorità spiazzanti per validità e varietà, che in questo caso si distendono dalla surf music alla psichedelia, dal free jazz allo space rock al klezmer. Di tutto di più.

Un ruolo di primissimo piano nella stesura ritmico/stilistica dei pezzi lo ricopre, indubbiamente, Ribot: a carico della sua sei corde è affidata l’apertura di “Mow Mow”, un bel surf psichedelico con aperture vagamente bluesy che, per tonalità, richiama alla mente gli episodi più felici dello stellare “The Gift” (2001, uno dei punti fermi della sfrenata prolificità zorniana). Le stesse risacche caraibiche e gli shake mid-lenti, dal facile impatto, si risentono in “Forbidden Tears”, seppur legate più ad un’atonale risoluzione klezmer del soppalco costruttivo.

Zorn e compagnia, però, sembrano prediligere momenti più intensi e, al contempo, dilatati, sospesi, eterei, tipici di un certo rock dei primi anni ’70. È questo il caso del bel lounge dissonante di “Uluwati”, che avrebbe potuto benissimo prendere parte all’intrigo soffuso che permeava il 18° FilmWork, “The Treatment”: molto interessante anche “Nekashim”, netto rifacimento alla straordinaria Masada, che viaggia, vaporosa, sospinta da un’intricata rete di tastiere e da un sotterraneo lavorio di percussioni mediorientali.

Ma ecco che, dai brani buoni o potenzialmente tali, si approda finalmente a quelli ben più ricchi e sostanziosi sia per spunti che per loro sviluppo. Eccezionale quello che accade in “A Ride On Cottonfair” dove, sfruttando un coinvolgente boogie anni ’50 del pianoforte, si arriva ad avere un vero e proprio musical in piccolo, dagherrotipo ben poco sbiadito di tempi che furono e che, se ben interpretati, possono far valere benissimo il loro inestinguibile fascino anche oggi. Splendida “Of Wonder And Certainty”, particolare commistione di acida psichedelia, ovviamente sempre a livello chitarristico, e stilemi neoclassici, che si avvale di un levare in crescendo per far fluire, fra le trame ritmiche, una vera e propria cascata di suoni, canonici o meno che siano. Si lascia ascoltare ben più che volentieri anche “Toys”, classico pezzo à la Zorn fra jazz e klezmer, che trova nei sussultanti spasmi jazzcore conclusivi – residuati post-bellici dei leggendari Naked City – la sua chiave di lettura più valida e completa. Sicuramente, un ottimo biglietto da visita per chi si volesse avvicinare per la prima volta al compositore.

Farà piacere, tuttavia, sapere che i due migliori momenti di “The Dreamers” sono, in contemporanea, anche i due pezzi più lunghi dell’album. Dapprima “Exodus”, appagante cavalcata free form di sette minuti, dove le surreali e mescaliniche tastiere dei Doors devono fare i conti con un prepotente zeffiro balcanico che spira, ammaliante, a distorcere una panacea blues, già filtrata di suo, che fuoriesce rugginosa, a fatica, dagli amplificatori. Infine, il capolavoro: “Anulikwutsayl” è proprietà privata di Ribot, oltre nove minuti che vedono all’azione il chitarrista americano mentre si destreggia fra immersioni psicotrope ed allucinogene alla Carlos Santana vecchi tempi (“Lotus” e, ancora di più, “Caravanserai” i punti di riferimento), epica soundtrack alla Morricone – il riff portante, distorto ed effettato, sembra uscito da qualche vecchio western cocente di fine anni ’60, magari nel confronto clou fra sceriffo e briganti nell’avvinazzato saloon di turno – e, sul tutto, una serie di rumori distorti sul fondo che non hanno altro scopo se non quello di amplificare ulteriormente l’imponenza e la liturgica avanzata del brano.

Principale sunto di tutti i territori toccati da Zorn, almeno negli ultimi cinque anni, “The Dreamers” si candida a diventare uno dei suoi lavori più importanti, nel futuro prossimo e lontano. Un bellissimo post-it variopinto per gli ammiratori, che qui troveranno la pozione medicamentosa con la quale poter soddisfare l’insaziabile voglia di “novità” che attanaglia Zorn ormai da trentasei anni: per tutti gli altri, una miracolosa sorgente da cui attingere, senza paure e senza ritegno.

Perché musiche così, purtroppo, non le fa più nessuno.

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