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R Recensione

7/10

Julie’s Haircut

Ashram Equinox

Avranno mai pensato, i Julie’s Haircut, di inserire un Reactable come parte integrante della propria strumentazione? Parlo proprio di quell’affare che tanto mandò in solluchero Björk negli anni che furono, al punto da convincerla ad acquistarne uno (a caro prezzo: la valutazione, ancor oggi, si aggira sui quattordicimila dollari) e a portarselo dietro in tour. Quale sia stato il suo destino, non è lecito saperlo. Ma nella psichedelia torturata, sognante, evocativa, reiterata del quintetto di Sassuolo, una tempesta di vibrazioni modulate su accenni di note e forme appena scorte di armonie vedo-non vedo, il gracchiare sgraziato e metamorfico del tavolo con i blocchi rappresenterebbe la stessa rivoluzione che, negli anni ’20 del secolo scorso, investì la New York di Toscanini e del theremin. E sì che di slittamenti eliocentrici i Julie’s Haircut, nella loro (non più) breve carriera, ne hanno già conosciuti parecchi: un “After Dark, My Sweet” (a detta di chi scrive, ancora il loro capolavoro) che codificava un particolare ibrido indie-motorik sciaguattante tra soluti stroboscopici, l’ambizioso doppio “Our Secret Ceremony” che esaltava la logorrea kraut e limava al massimo le tentazioni melodiche. Per aspera ad astra, il passo successivo, “Ashram Equinox”, si accoccola in questa nicchia, consolidando l’esperienza già maturata in anni di composizione e meditazione sulle nuove forme musicali assunte, di volta in volta, dalla nostra acconciatura preferita.

Come dev’essere bella, Julie, confusa ed indistinta, raggiante ed umbratile, italiana e tedesca, sorridente e corrucciata, un ritratto in movimento subliminale che scorre, lentamente ma inesorabilmente, in “Ashram”. Una vera e propria opera d’arte. Eccezionale lo sfumare del pianoforte iniziale nel bordone di basso carezzato dai piatti, nei delay e negli effetti delle chitarre, mentre ancora il suo effetto non si è esaurito, e continua a scalfire piccoli accordi dalla sostanza quasi brit: eccezionale, ma ancora è niente, se paragonato alla successiva dischiusa, ai lampi cosmici, panici dei fiati che baluginano sullo sfondo e regalano al brano un’aura di maestosità, di ieraticità sinceramente difficile a scalfirsi. Roba da far sembrare gli Squadra Omega dei poveri comprimari. È un sussulto di indicibile meraviglia, di dolcissima lascivia: Julie è in realtà Sun Ra, o forse Wayne Coyne, o ancora Damo Suzuki o, chissà, la Tori Amos degli anni ’90. La dimensione fiabesca e coloratissima di “Tarazed” (maniacale, ed ampiamente giustificata dai fatti, l’attenzione morbosa per l’incarnazione tangibile dei suoni) si concretizza in una fusion muscolare e catacombale, i Gilgamesh a colloquio privato con i Magma. “Equinox”, da parte sua, si rivoltola in un’arida secca di umori gotici, dove un banjo, avanzato probabilmente ad Alessandro “Asso” Stefana, è l’unica silhouette pienamente riconoscibile, in un marasma di destrutturazione cubista, di soffi e percezioni amniotiche.

Ed allora, onestamente detta tra di noi: chissenefrega del Reactable. Julie suona di tutto e, sia china sulle pedaliere, che ad occhi chiusi dietro le pelli, che a mormorare nel microfono, rimane sempre la diafana creatura più affascinante del rock italiano. Italiano?, perdonerete, naturalmente, il lapsus. Di italiano, Julie, non ha mai avuto nemmeno il nome. Figuriamoci le progressioni di “Taotie”, un selvaggio intrico elettronico dalla spiccata prominenza tribale (fate voi il giochino delle assonanze, fra Tangerine Dream e Manuel Göttsching), accarezzato da refoli space, che scivola gentilmente nei piani elettrici e nei carillon di “Han” (una melodia quasi da soundtrack, un girotondo infantile mesmerizzato dai sonagli e dalle eco) e recupera ritmo in una “Taarna” che zigzaga kraut con i tamburi jazz dei Don Caballero.

Quattro anni di attesa, sì, ma ben ripagati. Vivat!

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