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R Recensione

7/10

Metallic Taste Of Blood

Doctoring The Dead

Nemmeno da morti si può stare tranquilli. Nelle prime traduzioni italiane degli anni ‘30, il racconto conclusivo dei Dubliners joyciani, The Dead, veniva indicato come Il morto: scelta quantomeno infelice. Quelli non più in vita, difatti, pur ritornando all’essenza della polvere che tutti noi siamo, sempre in massa si raggruppano. Di morto in morto, l’inglese continua a mietere vittime: così che i Metallic Taste Of Blood sembrano curare i defunti quando, invece, li stanno forse adulterando, modificando geneticamente. Tutta colpa dell’insidiosissimo to doctor, /ˈdɑktɚ/ per gli ammeregani, uno dei false friends più appariscenti dell’intricato lessico verbale anglofono: e d’altro canto anche i greci raggruppavano le nozioni di rimedio medicamentoso e di veleno letale sotto lo stesso lemma, pharmakon. Dopo il passaggio di un bisturi, una ferita può infettarsi o suppurare…

Se da morti non si può stare tranquilli, figuriamoci da vivi. Con “Doctoring The Dead”, il quartetto capitanato dall’instancabile Eraldo Bernocchi riscatta il poco brillante esordio omonimo del 2012 (un’esercitazione di gruppo lontana da un’ideale omogeneità), firmando un disco vario, originale, apertissimo ad ogni interpretazione. Rinnovata, per l’occasione, la line up, meno stellare ma, forse, più concreta: confermato Colin Edwin (Porcupine Tree) al basso, fanno il loro ingresso Ted Parsons (Prong, Killing Joke, Godflesh, Jesu) per il tentacolare Balázs Pándi e Roy Powell (InterStatic, Naked Truth) per Jamie Saft. Ne scaturisce un muro di suono magnetico, monolitico ma non monocentrico: sin dall’attacco di “Ipsissimus”, l’impastato riff della sei corde – un feedback trattato? – tende a rimanere sommerso, caricando di accenti inusitati la sezione ritmica (un 6/8 che sembra  muoversi su traiettorie minimal-prog) e lasciando ampio margine di manovra per le sottili suggestioni armoniche delle tastiere. È il miglior Bernocchi formato RareNoise, insomma: una questione di gestione degli ingredienti, oltre che degli ingredienti stessi. Si presti l’orecchio a “Synthetic Tongue”, scroscio psichedelico contaminato da ruggini industrial e grandangoli ambientali: si studino gli sbilenchi incastri di arpeggi della title track, che si frange contro un poderoso andante electro-dub.

Tante le immagini, tanti gli spunti rilevanti. Anche chi naviga con esperienza in queste acque, giunto a “Doctoring The Dead” potrebbe impantanarsi, scovando in ogni suo anfratto particolarità sulle quali fissarsi, dettagli sui quali discutere per ore. I morti vengono resuscitati e dunque pugnalati in “Blind Voyeur”, vero spartiacque del lavoro: il flusso di trilli e note cristalline, che costituisce la (semplice) melodia di base, si strozza in un bagno di sangue di armonici. È un’intuizione semplice ed allo stesso tempo geniale. Da qui in poi l’ascolto del disco richiede maggior impegno, senza peraltro aggiungere nulla di nuovo a quanto già detto: in “Murder Burger”, pars construens e destruens seguono grossomodo lo stesso schema (unica variazione, l’utilizzo di percussioni etniche), “The Death Of Pan” insiste sul versante tribale-samsarico (con risultati invero modesti), “Day Of The Bones” vive di astrazioni kosmische (ancora una volta fondamentale il ruolo di Powell) fino a che non cala la tremenda mannaia noise di Bernocchi. Sono tre episodi vagamente incolori, cui avrebbe forse giovato una semplificazione strutturale.

Incontestabile, comunque, rimane il fatto che, in questo 2015 per lui già ricco (OssO, Mangiati Vivi, Sigillum S), il cinquantaduenne musicista milanese raggiunga, con Metallic Taste Of Blood, l’ennesimo, significativo traguardo. Prog rock? Rigorosamente per viventi curiosi e morti inquieti.

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