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R Recensione

6,5/10

Mythic Sunship

Ouroboros

Gonfie, elefantiache parate elettriche. Scorribande selvagge, magniloquenti. Gemmazioni hard rock indefinite ed incontrollate. Su tutto, il minimalismo: si inizia con un riff, un mood, uno spunto, lo si rigira nel maggior numero di sfumature possibili, lo si distorce ed ingigantisce fino ad annullarne la fisionomia per poi, come se niente fosse, mettere un punto e a capo. Prestano intelligentemente il fianco ad un gioco fin troppo usurato, i danesi Mythic Sunship: quello della psichedelia iperespansa, della jam in medias res, degli origami strumentali piegati e ripiegati su loro stessi. Lo fanno con un disco il cui titolo, da solo, esplica magistralmente la loro ragion d’essere: “Ouroboros” non è un parto masturbatorio à la Earthless, un’estenuante sfilza di tecnicismi à la Seven That Spells, un mosaico ipercinetico versione The Atomic Bitchwax o una tela fiamminga à la Causa Sui. È tutto questo e nulla di tutto questo.

È, sopra ogni altra cosa, un lavoro ben più colto di quanto lascerebbe supporre l’immaginario-chincaglieria da copertina: il quartetto di Copenhagen va a lezione dagli Amon Düül prima ancora che dagli Sleep, da Sun Ra prima che dai Quicksilver Messenger Service. I trip acidi delle tre lunghe strumentali sono dunque martoriati da interferenze space, brusche valanghe noise, inarrestabili ascensioni motorik: un elemento estraneo di fondo che, di fatto, trasfigura la natura di questa musica, una volta considerata nel dettaglio e non nel suo naturale fluire. Sono autentiche pennellate impressionistiche quelle di “Year Of The Serpent”, un acid blues che si esaurisce in una pentatonica selezionata col pilota automatico, ma che viene suonato con la grana ultraterrena di The Psychic Paramount. Il fuzz di “Ophidian Rising” sporca il perfetto interplay diddleyiano tra chitarre e sezione ritmica, costringendo il brano a divincolarsi a destra e a manca per trovare uno sbocco adeguato: il dirompente impatto heavydelico trattiene, in sé, i germi di una certa, frustrata sacralità. Infine, “Leviathan”, o degli Orthrelm adulterati dalle scale arabe: un’impetuosa, cosmica tempesta di sabbia che infuria – imperniata sulle stesse note – per oltre venti minuti, senza trovare pacificazione alcuna.

C’è qualcosa di interstellare, metafisico persino, in “Ouroboros”, che impedisce di accantonarlo come mera decalcomania di una tradizione resa sterile dal sovradosaggio: un ingrediente aggiunto, la chiave delle porte della percezione. Vale la pena tuffarsi in questo brodo primordiale, per scovarlo ed agguantarlo.

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