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R Recensione

5,5/10

Zun

Burial Sunrise

In altri tempi, con altri mezzi, fra altre cerchie, l’esordio di un supergruppo come Zun sarebbe stato elevato a disco dell’anno ancor prima di aver avuto la possibilità di ascoltare mezza nota. Voglio dire: non capita tutti i giorni che Gary Arce degli Yawning Man si svegli e chieda a John Garcia (ex Kyuss, Vista Chino), Robby Krieger (che, se non sapete chi sia, sarebbe meglio ripassare un po’ la storia del rock), Sera Timms (Black Mare, Ides Of Gemini) e Mario Lalli (Yawning Man, Fatso Jetson) di collaborare ad un cantiere collettivo che, una volta ultimato, andrà a formare il fluido divenire di “Burial Sunrise”. Da qui la sorpresa per non veder piovere le citazioni, ad usare un eufemismo. Due ipotesi al riguardo, per giustificare l’incognita. La prima è generazionale: chi ha vissuto in presa diretta gli anni dello stoner e dell’acid rock ha diffuso la notizia con gioia spontanea e con i mezzi loro più congeniali (leggasi: cartaceo ben prima che digitale). Una sommaria scorsa delle maggiori pubblicazioni di genere, italiane ed estere, sembra confermare il dato. Tuttavia, visto che è brutto dare dei vecchi incartapecoriti alle firme di Rumore, Mucchio, Blow Up e Buscadero (cosa che, di fatto, corrisponde solo parzialmente alla realtà), avanzeremo un’ulteriore tesi, assai più dolorosa: che “Burial Sunrise” non sia meritevole di particolare clamore se non, appunto, da parte degli irriducibili aficionados. Suggestione deleteria, ma corroborata dal parametro fondamentale, l’ascolto.

In una perfetta alternanza di genere, i brani dispari vengono interpretati da Garcia, quelli pari dalla Timms. Ripetutamente, nel recente passato, abbiamo messo in dubbio la validità del percorso artistico intrapreso dall’uomo di San Manuel, Arizona dopo lo scioglimento della band madre: l’esperienza Zun, nonostante il brillante attacco di “Nothing Farther” (un’intima preghiera desertica che riluce di riverberi, un gioco di specchi che eleva la psichedelia a linguaggio universale), non sembra segnare il decisivo cambio di passo. Palpabile è la staticità dell’interpretazione bluesy di “All For Nothing” (debolmente sorretta da un mantra strumentale a variazione minima), così come lo schema di “All That You Say I Am” – onirica slide, basso distorto, chitarre riarse dal sole e segmentate su di una ritmica primordiale – si esaurisce interamente nelle prime due battute, dilungandosi poi per otto, eterni minuti. Il fattore femminile di Sera Timms, in sé e di per sé, non riesce peraltro ad incidere sullo svolgimento dei rimanenti brani. Ancora una volta, discreto il primo atto, una catatonica “Into The Wasteland” annebbiata dal peyote: impalpabile il secondo (“Come Through The Water”), monolitico ed immateriale; la conclusiva “Solar Incantation” non fa altro che servirsi della limitata distribuzione di arpeggi già osservata lungo la tracklist, senza nemmeno tentare di vivacizzare la narrazione.

Lo si può rimettere decine di volte sul piatto, “Burial Sunrise”, ma ogni passaggio restituirà impressioni identiche al precedente: segno eloquente che monodimensionalità ed autoreferenzialità hanno cristallizzato, nella storia, uno stile altrove ben più dirompente.

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