Jefferson Airplane
Volunteers
Shakedown 1969. Anno tragico ed entusiasmante allo stesso tempo. La stagione hippie tocca il suo zenith a Woodstock, in una irripetibile sbornia collettiva. Non sembra mera utopia un’alternativa, basata sull’infinito amore che si sprigiona dalle chitarre, a una società malata, che sfoga nell’arroganza delle armi le proprie distorsioni. Tuttavia, il lato oscuro e confuso della stagione dei fiori inizia ad affiorare, proprio mentre il conflitto nel Sud-est asiatico e le contestazioni studentesche in Occidente entrano nella fase critica.Charles Manson si tramuta nel “massacratore di Bel Air” e sarà usato dal sistema come agnello sacrificale per affossare i sogni hippie al ritmo di “Helter Skelter”, mentre la “nemesi di Woodstock” si realizza ad Altamont, a mezzanotte. I Rolling Stones attaccano “Sympathy for the devil” e la coltellata di un Hell’s angel che tramortisce il giovane Meredith Hunter squarcia i lembi di innocenza del rock.
Bene, “Volunteers” è tutto questo, l’album che mirabilmente sintetizza l’irripetibile spleen da “fin de siècle” che si respira nel tardo 1969. Un toccante susseguirsi di furore, disincanto e speranza tale da renderlo il canto del cigno di una generazione, ora più adulta e consapevole. È altresì la gemma più preziosa nello scrigno Jefferson Airplane, l’opera in cui le istanze dei già fenomenali “Surrealistic pillow”, “After bathing at Dexter’s” e “Crown of creation” sfociano a nostro avviso nel tassello perfetto e definitivo del mosaico della band di San Francisco. Forgiando un sound tra i più complessi, cangianti e stratificati della loro epoca, anche grazie agli spettacolari contributi di talenti del calibro di David Crosby, Stephen Stills, Nicky Hopkins e Jerry Garcia, che dilatano a dismisura lo scibile westcoastiano.
L’iniziale “We can be together” è pura energia in movimento, sprigionata dallo scoppiettante piano di Hopkins che integra alla perfezione la chitarra affilata e acida di Jorma Kaukonen e il canto libero, intriso di drammatica consapevolezza di Paul Kantner, Marty Balin e di Sua Altezza “Rock and roll Woman Grace Slick. Un inno belligerante immortale, che cattura la freschezza e il respiro dell'aria aperta e tersa dopo la pioggia. Il traditional folk “Good Sheperd” e la strepitosa vena country-rock di “The Farm”, ingrossata da Hopkins e dalla pedal steel di Garcia, scavano nei solchi più reconditi della “new american music” ormai in auge, come per prepararsi al vero inizio delle ostilità. Introdotte da un sibilo subdolo e distorto al pianoforte, le torride e acide sperimentazioni di “Hey Frederick” vibrano infatti della luce dei classici, librandosi con l'ugola di una Grace Slick in forma smagliante e con gli arabeschi lisergici della sei corde di Kaukonen nel finale.
Gli aromi folk-blues della squisita “Turn my life down”, toccante haiku di restauro interiore scandito da un superbo Stephen Stills all’ Hammond, traghettano al cuore nero dell’album: la maestosa e crosbyana “Wooden Ships”. Vanno in scena i rimpianti dei Sixties, che si schiudono in una inafferrabile alternanza di presagi, col vento alto, freddi e multiformi brandelli di azzurro esaltati dai limpidi contrappunti solisti di Kaukonen. Sugli stessi binari si snoda la non meno magistrale “Eskimo Blue Day”: in quasi sette minuti di inquietanti opacità si dipana l’ultimo grande affresco acido dei Jefferson Airplane.
Una galoppata foriera di vertigini e catarsi liberatorie che epitoma lo stile wagneriano della band: le chitarre frementi, il palpito incalzante della sezione ritmica Casady-Dyden e la voce di Grace. “A song for all season”, puntellata dallo stonesiano piano honky tonk di Hopkins, accentua il sapore decadente dell’opera, in una struggente anticipazione del Neil Young di “Tonight’s the night”. Un ironico funerale per un’ epoca in procinto di svanire, tipo morte del proibizionismo in “C’era una volta in America”: altro che canzone buona per tutte le stagioni! Questo presagio si rafforza con i 64 secondi per solo organo ferale del traditional “Meadowland”, folgoranti e intensi nell’ipotizzare la dolorosa chiusura a riccio del futuro e coevo “If I could only remember my name” di Crosby.
Ma è solo un attimo: la sanguigna invettiva della title-track inneggia alla rivoluzione, con appena un briciolo di quella retorica autocelebrativa che al contrario inficerà le produzioni successive, a partire dal verboso “Blows against the empire” di Kantner. Qui è invece un perfetto sigillo all’ineguagliabile mistura di lirismo e impegno politico che rende “Volunteers” la selvaggia e orgogliosa colonna sonora di un sogno infranto.
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