Pink Floyd
A Saucerful Of Secrets
Dopo il big bang di “The Piper At The Gates Of Dawn”, i Pink Floyd si trovarono in una non facile situazione. La frattura, personale ed artistica, tra Syd Barrett ed il resto della band era ormai irrecuperabile: si veda lo scarto stilistico tra “Jugband Blues” di Barrett ed il resto del disco, molto meno psicotico e delirante. Oltre a questo, la band doveva ancora trovare il giusto affiatamento con il nuovo chitarrista, David Gilmour.
Ciò che emerge da questa situazione è un progetto interlocutorio, di passaggio, che mostra anche una certa insicurezza a proposito della strada da seguire: rimanere fedeli alla psichedelia efferata del primo lavoro o tuffarsi in un nuovo corso psichedelico più soffuso e concettuale?
Il disco non dà risposta a questa domanda, ma, seppur non presentandosi con i migliori presupposti, “A Saucerful Of Secrets” riesce a ritagliarsi un prestigio ed un’importanza non indifferenti nel panorama psichedelico inglese, forse ancora di più di “The Piper”, proprio per la sua genialità instabile e pluridirezionale.
Il basso liquido che introduce la nenia psicotica e arabesca di “Let There Be More Light” è distante anni luce dalle chitarre stridenti di Syd Barrett. Distante perché ordinato, delicato nello sfumare e nel ripresentarsi al momento giusto. È un magnifico viaggio attraverso deserto e fuoco, una psichedelica fatata che si fonde a sonorità aspre e sghembe, con l’assolo lunatico di Gilmour nel finale.
Roger Waters influisce profondamente sulle sonorità della band, iniettando una forte dose di melodia e trasformando il disordine apocalittico e spaziale dell’esordio in un flusso di coscienza continuo e suadente, che raggiungerà la sua perfezione solo diversi anni dopo. Ciò che rende unico l’album del ’68 è la convivenza dei due lati della band. Quello luciferino e quello trascendente.
Melodie beat e sezione ritmica scalpitante danno vita ad un gioiello di indecisioni come “Remember a Day”, delicata e subliminale come poche altre. Un pianoforte dolcissimo ed ipnotico accompagna parole sognanti e respiri, suoni intermittenti e sibili appena percettibili. I Pink Floyd sono combattuti tra melodie easy e viaggi apocalittici; ne viene fuori un linguaggio musicale ibrido ed unico nella storia del rock.
“Set The Controls For The Heart To The Sun” è un serpente che striscia nella nostra mente, si mimetizza, colpisce con il suo veleno terribilmente dolce e letale. Uno dei viaggi rarefatti più affascinanti e riusciti del gruppo; la voce sussurrata, le musicalità orientali e i suoni dilatati creano spazi immensi nella nostra mente, radure desolate, cieli plumbei e solitudine.
“Corporal Clegg” si avvicina molto alle sonorità dell’esordio. Chitarra acida, atmosfera stralunata e aggressiva, assoluta imprevedibilità nei toni vocali così come negli assoli di fiati e chitarra.
Arrivati alla quinta traccia, ogni indecisione e contrasto interiore sparisce, lasciando spazio ai dodici, splendidi minuti della title track.
Una sorta di ascesa dagli inferi verso il paradiso.
L’esasperante crescendo iniziale sancisce il primo atto; la prima parte del viaggio si tinge di colori accecanti, i suoni insistenti e gelidi si rincorrono in un aumento costante di tensione.
Il tutto svanisce per lasciare posto alla batteria che tenta di dare un ordine a quel caos demoniaco; un ordine che viene subito scalfito e spezzato dall’organo che suona motivi dadaisti e tetri; la chitarra fluttua nell’aere con i suoi rumori cosmici e roboanti. Il secondo atto è questo, l’ordine che cerca di mettere a tacere il caos. La luce che squarcia le tenebre. La lotta tra notte e giorno. Un crepuscolo tumultuoso.
Il terzo ed ultimo tema arriva come manna dal cielo. È il paradiso dopo l’inferno. L’ordine assoluto, religioso e perfetto del crescendo di organo è la piena soddisfazione della mente, frastornata fino a questo momento da suoni disordinati e stridenti. Nel finale si tocca il cielo con un dito.
È un brano immenso, un viaggio attraverso tenebre e luce. Si tocca forse l’apice nella carriera del gruppo.
“See-Saw” è una tenera ballata; arricchita di splendide orchestrazioni per archi, incursioni magiche di tastiere e ritmo di batteria sempre originale (come in tutto l’album). Forse, dopo il precedente brano, è difficile darle il giusto valore, ma nessuna canzone potrebbe fare una grande figura dopo “A Saucerful Of Secrets”.
Il finale è affidato all’ultima produzione di Syd Barrett sotto la sigla Pink Floyd: “Jugband Blues” è una filastrocca deliziosa, senza il minimo equilibrio, come tutte le opere del magico Syd.
Accuratamente studiata negli archi e nei cori, ma multiforme ed imprevedibile nelle nuvole di suoni che la contornano; infine dolce nel coda acustica.
“A Saucerful Of Secrets” resta quindi un disco di transizione, fortemente condizionato dalla situazione instabile in cui versava la band, ma così unico e ricco, pieno di sfaccettature ed influenze da elevarsi a pietra miliare della psichedelica. Paradossalmente, può essere considerato il miglior compendio del primo suono del gruppo, ma anche un pregevole assaggio di ciò che arriverà in seguito.
Non c’è un filo conduttore, nessun concept o progetto particolare; semplicemente, si tratta di sette tra i migliori brani dei Pink Floyd, senza tempo né scopo. Magnifici proprio per la loro precaria e transitoria bellezza.
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