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R Recensione

5/10

John Wesley

The Lilypad Suite

Il bravo chitarrista e cantante americano, ma con un “pied-a-terre” in UK, che molti hanno imparato a conoscere seguendo i Porcupine Tree in concerto, essendo dal tour di “In Absentia” il quinto uomo nella line-up dal vivo, dal 1994 ha avviato a suo nome una interessante carriera che solo in parte è debitrice della formazione di Steven Wilson o degli altri musicisti di cui è stato session-man (fra questi va citato l’ex-leader dei Marillion, Fish).

Dall’amalgama sonora di questo “The Lilypad Suite” emergono composizioni in cui la direzione non è quella indicata dal prog inglese o dal rock psichedelico classicamente inteso e dunque caratterizzata da lunghi assoli di chitarra: qui è un songwriting d’impronta cantautorale a costituire la sorgente dei brani, con lo sguardo rivolto al suono dei Seventies nella West Coast, anche se talvolta i risultati appaiono non troppo lontani da quelli magistralmente raggiunti dagli “ultimi” Anathema. Wesley ha elaborato queste canzoni acustica alla mano, in una condizione sicuramente intima, anche se poi l’utilizzo di musicisti professionisti ha costruito attorno ad esse una dimensione da rock-band. Il cuore focale dell’album è costituito dalla suite che da il titolo (a cui sono riconducibili sette dei nove titoli della tracklist) e che racconta la storia di una giovane ragazza che si trova a fare i conti con il vuoto lasciato dal padre: il mood musicale si alterna conseguentemente fra il malinconico e il drammatico. I suoni hanno una grande dinamica e si librano nello spazio creando forme suggestive dall’impatto immaginifico, con una grande cura del risultato d’insieme e poco spazio per l’esaltazione individuale degli strumentisti. Il mixaggio ed il mastering del lavoro è ad opera di Steven Orchard, vincitore di un Grammy Award e collaboratore di Porcupine Tree, Chris Cornell, U2, Jeff Beck, Kate Bush e molti altri artisti internazionali.

Si apprezza la vena compositiva prescelta da un musicista che avrebbe tratto maggior beneficio ricalcando in qualche misura il materiale dei Porcupine Tree, in cui in sede live, Wesley ha un posto di grande spicco: spesso Wilson gli riserva assoli che in studio appartenevano a lui, talvolta lasciandogli anche il microfono. Quindi sotto molti aspetti un lavoro come “The Lilypad Suite” si apprezza per il senso di misura ed equilibrio. D’altra parte tuttavia manca una chiave di volta, qualche elemento che renda questo lavoro davvero memorabile. Tutto è perfetto, misurato, compiuto: ma si ha il senso che qualcosa di più poteva, doveva essere fatto. O di meno. Queste canzoni si sarebbero forse espresse al meglio se fossero rimaste nel limbo di intimismo nel quale nel quale sono nate: chitarra acustica e voce sarebbero stati sufficienti a darle voce. Invece aggiungendo le classiche argomentazioni da rock pare che il materiale iniziale risulti insufficiente. Con pochi ingredienti a disposizione si tira fuori una buona cena per due persone: in quattro c’é il rischio che le portate rimangano troppo esigue e scarsamente condite. Ecco, questa è proprio l’impressione generale che si ricava dall’ascolto di un lavoro (che è lungo un po’ di più di un EP e un po’ meno di un album), che nei frangenti più raccolti rivela il meglio di sé. Uno di questi è certamente la bella Free, uno dei pezzi che non appartiene alla suite, e che avrebbe interpretato alla perfezione Eddie Vedder, tanti sono i punti in comune con il primo repertorio dei suoi Pearl Jam. Altrove sembrano parzialmente evidenti le influenze dei Marillion dell’era Steve Hogarth e dei Radiohead.  

Se di strada Wesley ne ha già fatta parecchia, non possiamo che augurargli di continuare a percorrerla senza il timore di sperimentare un po’ di più.

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