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R Recensione

7/10

Weedpecker

III

Ecco il secondo disco, nell’arco di una risibile manciata di mesi, in grado di ridisegnare radicalmente i criteri di gusto – personale o critico, il distinguo tende in questo caso a sbiadire – verso l’affollatissimo circuito dello stoner contemporaneo. Principale punto di contatto fra gli americani Elder e i polacchi Weedpecker è, come salta subito all’occhio, la comune filiazione al roster della tedesca Stickman Records: un’appartenenza, questa, in verità irriducibile alla sola e semplice contingenza formale, alle casualità dell’hic et nunc (e in barba alla geografia). Ciò che gli autori del raffinato “Reflections Of A Floating World” e quelli del laconico “III” sembrano realmente condividere è, piuttosto, l’anelito alla personale ristrutturazione – nelle regole sintattiche e nelle formule computative – del sistema formale heavy psych: un’impresa erculea che, se per il trio di Boston assume le fattezze di un nuovo romanzo americano (fatto di carne, sudore, sangue e tendini), per il quartetto di Varsavia prende la strada dell’iperuranio.

Diventa ben più difficile del previsto sintetizzare, in poche parole funzionali, le coordinate stilistiche di “III”. Per la tendenza ad amalgamare in un unico organismo sospiri ambientali e rovinosi cedimenti elettrici si potrebbe legittimamente parlare di post (ma è più post rock o più post metal?): questo, tuttavia, tralasciando un non marginale particolare, che interessa il midollo inconfondibilmente blues delle intelaiature chitarristiche portanti. Ci si ributti a capofitto sullo stoner, allora: ma è uno stoner del tutto anomalo, irreale e impalpabile anche nelle sue manifestazioni più irruente, trasfigurato nella sua essenza fisica. Pulviscoli strumentali e muri di suono: stoner-gaze, forse? Altre questioni sparse, poi, a partire dalla magnifica copertina di Maciej Komuda che – non casualmente – accende di cromatismo acceso e decadente l’“Innerspeaker” dei Tame Impala, passando per l’onnipresenza di flanger e phaser nei timbri delle sei corde dei fratelli Dobry, la costante e trasognata narcolessi psichedelica che avviluppa le trame del quartetto, una voce che a tratti perde la sua connotazione caratteristica per farsi strumento fra gli strumenti (c’è più glam o più “Pet Sounds” nelle armonizzazioni di “Embrace”?) e un melodismo di raffinatezza quasi aristocratica (i liquidi pizzicati di jazzamericana in “Lazy Boy And The Temple Of Wonders” sono davvero qualcosa di speciale, un incrocio impossibile fra Mercury Rev, Allman Brothers e primi Porcupine Tree).

Tantissimo da annotare, ancor più da ascoltare, dunque: non si fa torto a nessuno ad affermare che, come i Weedpecker, oggi non suona nessuno. Per non rovinare il piacere della scoperta individuale ma, al contempo, fornire qualche utile indicazione, ci limitiamo ad isolare tre istantanee chiave: il maestoso – e maestosamente architettato – deflagrare delle chitarre nella supernova floydiana di “Molecule” (a 3:39 lo scatto chiave), l’acido rarefarsi della seconda metà di “From Mars To Mercury” (una lallazione onirica che vale l’acquisto del disco), i singhiozzanti slap di basso che spezzano a metà “Liquid Sky” e la costringono a reinventarsi morbido funk crepuscolare.

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