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R Recensione

7/10

Across Tundras

Tumbleweeds

Dopo le devastanti cavalcate a rotta di collo, giunge il momento di legare la cavezza dei propri destrieri e fermarsi a scrutare nei doppi fondi di una pinta di birra. “Tumbleweeds”, ottavo disco degli Across Tundras, rilasciato quasi in contemporanea al già preso in esame “Sage”, ne rappresenta la controparte più intima, ristoratrice, folkish e viscerale, una volta decontaminato il trio del Colorado dai brandelli di saturazione doom e rivestite le chitarre di un sentire profondamente rurale, arcaico. Un album che, in barba alla minima distanza temporale strettamente dovuta per erigerne la struttura portante, non bada a spese e riversa una quantità di concetti persino stordente, per chi si fosse appena ripreso dalla piacevole scoperta del lato elettrico e genuinamente “selvaggio” esibito dalla band nelle puntate immediatamente precedenti.

La strumentazione, come spesso accade in questi casi, si allarga a comprendere non solo le controparti acustiche delle grandi protagoniste di “Sage”, ma anche ulteriori valori aggiunti, come diversi tipi di percussioni, il banjo, le pedaliere steel. “Tumbleweeds” alza, attorno a sé, un quantitativo di polvere allucinogena francamente inimmaginabile, turbini di musica vecchia quanto il mondo coagulati attorno ad un nucleo d’acciaio, dalle propaggini liquide, indistinte, pulsanti. Va a finire, as usual, che si parla della copertina come della migliore recensione possibile su piazza e si fa l’elenco dei soliti noti, passando dai Grateful Dead verso i Quicksilver Messenger Service, da Bonnie “Prince” Billy – e le sue recenti, torbide fascinazioni verso uno stile cantautorale estintosi nella notte dei tempi… –  al canzoniere popolare senza nomi e senza glorie individuali. Un po’ sminuente limitarci al compitino, a dirla tutta.

Il lavoro degli Across Tundras è, peraltro, eccelso. La tentazione dei raga a trazione indefinita e sospensione materiale coglie solo in fondo al corpus, con “Totem” e l’ancora più frammentaria “Passage Of Time” (entrambe composte con l’aiuto dei russi Fear Konstruktor). Ovunque pullulano fantasmi da torch songs (“Drinking Alone Together”, “Lay Your Head”, la fantastica “Whiskey Barrel Heart” cullata da una slide), quadretti western d’altri tempi (“Wounded Battle Hymn”), blues tribali in disfacimento dalle semplici, ma straordinarie, variazioni timbriche (“Wooden Wheels”), spaccati di tradizione indigena filtrati attraverso una sensibilità che parrebbe venire tutto fuorché dal Ventunesimo Secolo – il dialogo di banjo e sitar in “For Grandpa Frank”: davvero un suono primordiale – e, soprattutto, la psichedelia impersonata in centinaia di forme diverse: desertica in “Breaking Ground Pt.1”, gonfia e torrida in “Breaking Ground Pt.2”, oscura e tintinnante in “Mescalito”, aguzza e sciolta da vincoli in “Vapor Trails”, il miglior brano del disco.

Ascoltare ancora oggi, nel 2012 appena scoccato, musica così demodé ed “antimoderna” è un preciso guanto di sfida, per quanto a tratti ultraconservatore, alle generazioni che pensano di innovare senza preservare. Significativo sottolineare che “Tumbleweeds”, parto extra-Neurot, sia un disco autoprodotto: il rischio non sembra essere parola conosciuta in casa Across Tundras.

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