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R Recensione

8,5/10

Bill Callahan

Apocalypse

A sud in lontananza le montagne spoglie del Messico. I canyon del fiume. A ovest il terreno color terra cotta lungo la frontiera. Sì, avete letto bene. Il ritorno di Bill Callahan, dopo quella meraviglia di “Sometimes I Wish We Were An Eagle” tra Van Dyke Parks e un Nick Drake disidratato, è un arido flash mentale che incrocia nel deja-vu le polverose strade del Mito americano. Ma stavolta il titolo, un funesto “Apocalypse”, mette subito in chiaro che all’autore di Austin non interessa l’esegesi dei padri pellegrini nel nuovo continente. Tutt’altro.

Il grande paese delle grandi possibilità è una mitologia morente e con le mani sporche di sangue, un involucro vuoto che ha svenduto i suoi sogni in un brusco risveglio avvolto nel torpore dei jingle televisivi. Siamo tutti piccoli e sperduti Llewelyn Moss con i tacchi degli stivali affondati nel pietrisco vulcanico del Rio Grande e il deserto davanti al binocolo, a rimirare un destino di incognite negli infiniti spazi. “Apocalypse” è il deserto sociale di Cormac McCarthy che dal confine Texas-Messico infetta l’anima dell’uomo a ogni angolo del pianeta. Il tempo delle limpide orchestrazioni e pene d’amor perduto di “All Thoughts Are Prey To Some Beast” per l’arpista Joanna è andato, anche se versi come “…My baby’s gone…Oh, where has my baby gone?” riportano inevitabilmente i segni di quella tormentata storia, ora l’apocalisse (esistenziale) a cui allude Callahan s’interroga su un country & western essiccato in un minimalismo verboso, stagionato negli eleganti sfrigolii dei legni elettroacustici e violini (di Matt Kinsey e Gordon Butler) che irradiano la compassata “Drover” tra Calexico e Buckley padre. Il baritono del cantautore texano, coadiuvato alla produzione dal fido John Congleton, insegue l’ombra del sommo maestro Cohen a braccetto con il coetaneo Will Oldham in “Baby’s Breath”, uno Skip James dimesso e dal passo empirico di esacerbati solstizi psichedelici. E intaglia nella classicità dei posteri l’imperdibile “America!” (canzoncina post-folk dell’anno, potete segnarvelo sul quaderno degli appunti), sarcastica riflessione politica sulle conseguenze del secolare imperialismo U.S.A. in uno stentoreo ritmo elettrico pre-war e improvvise serpentine acidule: il motorik ossessivo dei Faust in rotta di collisione con Hank Williams.

“…Captain Kristofferson! Buck Sergeant Newbury! Leatherneck Jones! Sergeant Cash! What an army, what an air force, what a marines…America! I never served for my country…America! America! Afghanistan! Vietnam! Iran! Native American! America! Well everyone's allowed a past they don't care to mention…”

In “Universal Applicant”, aperta dal flauto di Luke Franco, il crooning ieratico di Callahan ha la forza imperturbabile dell’acqua piovana nei periodi di siccità, adagiata su un excursus biblico da Vecchio Testamento che evapora in sommesse suggestioni di tenue malinconia cosmica. Idem l'atmosfera placida del wurlitzer e pianoforte di Jonathan Meiburg che accarezza di morbide note le riflessive “Riding For The Feeling” e “One Fine Morning” (quasi nove minuti), assolate folk-ballads da crepuscolo in veranda seduti con mezzo bicchiere di scotch nella mano e una copia del dylanesco “Desire” sul tavolo, mentre il tuo labrador ti guarda orgoglioso e approva. Quando il livello di scrittura è questo degli ultimi anni l’ex Smog non teme concorrenza nel tratteggiare il poetico declino di un mondo che ha lasciato per sempre gli antichi valori alle spalle, una società di fantasmi e carcasse dove puoi soltanto scegliere in “quale ordine” abbandonare la tua vita e aspettare l’arrivo del treno (“…And when my cattle turns on me i was knocked back flat…I was knocked out cold for one clack of the train track…”).

Accadeva nel finale di “Pat Garrett & Billy The Kid” (ancora Dylan), un fotogramma al rallentatore di foschi paesaggi e uomini annientati dalla Storia nel Sudest degli Stati Uniti, consapevoli che “le persone vere sono scomparse…” (“Drover”). Le montagne della copertina dipinte da Paul Ryan nel Big Bend National Park sembrano inchinarsi taumaturgiche al sole “like a ballet of the heart”, noi c’inchiniamo umilmente al mandriano errante Bill. Che lo spirito del dio Wakan Tanka ce lo conservi a lungo, perché l’apocalisse ha ormai invaso questo paese di vecchi, è dentro le nostre ossa stanche, e abbiamo un disperato bisogno di sperare.

“…And the punk and the lunk and the drunk and the skunk and the hunk and the monk in me…All sunk” (“Universal Applicant”).

 

 

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Voto degli utenti: 6,8/10 in media su 26 voti.

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bill_carson (ha votato 8 questo disco) alle 10:07 del 29 aprile 2011 ha scritto:

io ve l'avevo detto...

disco bellissimo. profondo, evocativo, imperdibile.

8+

ottima rece, finale ispirato .

paolo gazzola (ha votato 7 questo disco) alle 11:36 del 29 aprile 2011 ha scritto:

Recensione superlativa - bravo, bravissimo Daniele - e disco, ancora una volta, molto buono (Drover e America! fra i suoi capolavori). Cala decisamente però, a mio sentire, nella seconda parte, un po' inconsistente e poco coraggiosa. Da qui, e dal confronto col suo illustre predecessore, il voto "stretto" (scusa, Bill ).

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 11:49 del 29 aprile 2011 ha scritto:

Anche secondo me cede un po' nella seconda parte (bisogna essere un minimo obiettivi anche da "fan"), ma le prime quattro canzoni, mamma mia... non cede neanche per un secondo - invece - la recensione di Daniele.

Filippo Maradei (ha votato 7 questo disco) alle 11:56 del 29 aprile 2011 ha scritto:

Come per Paolo: prime due canzoni sugli scudi ("Drover", in particolare, incalzante folk-ballad pastorale), e molto intensa anche "Riding For The Feeling", porto-sicuro, rarefatta e quasi desertica per registro d'accordi e toni; ma il resto, compresa l'Andersoniana "America!", non mi ha colpito più di tanto. Ottimo scritto, comunque, centratissimo e molto sentito.

gull (ha votato 7 questo disco) alle 13:09 del 29 aprile 2011 ha scritto:

Ci sono anch'io.....

.....ad esprimere la stessa opinione. Per i miei gusti sono bellissime le prime due, poi "America" proprio non la reggo, e le altre mi sembrano piuttosto tipiche di quest'uomo (forse troppo!), pur non mancando i bei momenti. Complessivamente mi piace, ma a parte le due iniziali, non c'è praticamente nulla di imprescindibile (sempre per me, sia chiaro).

nebraska82 (ha votato 8 questo disco) alle 13:32 del 29 aprile 2011 ha scritto:

Ottimo lavoro.

tarantula (ha votato 7 questo disco) alle 19:23 del 29 aprile 2011 ha scritto:

Eh sì, bellissime le prime 3, poi cala di brutto!

Ad un ascolto più approfondito, si digeriscono bene anche gli ultimi 4 pezzi ma è come scendere dal cielo sulla terra.

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 19:29 del 29 aprile 2011 ha scritto:

RE:

Sì io ho sbagliato, ho barlato delle prime 4 ma in realtà il pezzo migliore secondo me è "Riding for the Feeling", che si ricollega a quella serie di "instant-classics" che Bill centellina al ritmo di uno per disco ("Rock Bottom Rise", "The Wind & The Dove", gli ultimi due prima di questo)

fabfabfab (ha votato 8 questo disco) alle 19:30 del 29 aprile 2011 ha scritto:

RE: RE:

"Barlato" = "Parlato" ... forse ascolto troppa musica afro (battuta razzista).

salvatore (ha votato 6 questo disco) alle 20:36 del 29 aprile 2011 ha scritto:

Non mi ha convinto più di tanto... "Riding for..." è molto bella, ma il resto non mi sembra particolarmente ispirato. Devo confessare, però, che anche le ultime prove non mi avevano esaltato, visto che non ho apprezzato particolarmente questa "normalizzazione" nella sua scrittura. Resta comunque un circolare songwriting sopraffino che di tanto in tanto ti fa venire la pelle d'oca. Non è poco, si potrebbe dire... Per uno come lui, sì: è poco! Da fan, i tempi di "Wild love" (geniale è dir poco), "Red Apple Falls" (qui, Nick Drake eccome) e "Julius Caesar", per essere chiari, rispettivamente, due capolavori e un quasi-capolavoro sono lontani, molto lontani...

LuciferSam alle 16:28 del 2 maggio 2011 ha scritto:

grande disco, assai colto. comprato al volo.

Claudio_Santoro alle 12:05 del 9 maggio 2011 ha scritto:

Ho scoperto Bill Callahan da poco. Parlando di Mark Lanegan con un amico, dicevamo che il rosso non sfornava un disco a suo nome da un bel po' di tempo. Lui allora mi suggerì di ascoltare Bill Callahan. E io, da quel giorno, gli sono grato.

REBBY (ha votato 6 questo disco) alle 8:37 del 30 maggio 2011 ha scritto:

Lui è sempre bravo (la stupenda Drover è li a testimoniarlo), si discute, ma anch'io penso che quella meraviglia di Sometimes I wish we were an eagle sia molto più bello di questo, ancorchè se forse meno ambizioso.

dissonante (ha votato 8,5 questo disco) alle 9:44 del 13 ottobre 2013 ha scritto:

Il brano iniziale "Drover" vale già da solo il disco, che in ogni caso non inciampa mai e ci consegna un'opera mirabile.