Linda Perhacs
The Soul Of All Natural Things
La parabola (ma sarebbe più giusto dire l'iperbole o l'ellissi...) musicale di Linda Perhacs rimane tutt'ora sospesa fuori dal tempo seppure inscritta e in qualche modo emblematica del nostro tempo. Di un universo liquido e ciclico, insieme opaco e trasparente, nel quale, grazie alla particolarità della rete, tutto ciò che è sommerso rinviene prima o poi alla luce in un eterno ritorno di ondate e maree. La storia dell'ex igienista dentale che nel 1970 incise, quasi per gioco, un unico album intitolato Parallelograms divenuto, a dispetto del subitaneo e immeritato oblio, uno dei tesori perduti nella sterminata Atlantide del folk americano degli anni 60, riscoperto nel 2003 grazie ad una ristampa per Wild Places e adottato da una nuova generazione di musicisti e appassionati del genere, è ormai vicenda più o meno nota, qui magnificamente riproposta dal nostro Fabio Codias.
In maniera speculare a quanto era accaduto anni fa, sull'altra sponda dell'Atlantico, alla soave Vashti Bunyan, anche per l'ormai settantenne Linda, dopo una serie di tributi e collaborazioni (con Prefuse 73 e l'ubiquo pigmalione Devendra Banhart, fra gli altri) si profila l'opportunità di recuperare il tempo, non tanto perduto, quanto tranquillamente lasciato decantare altrove, e un talento innegabile, ben custodito nello scrigno della sua vita privata, nella realizzazione di un nuova compiuta opera seconda.
Pur distante, sul piano stilistico oltre che temporale, dalle vette più astrattiste e psichedeliche dell'ineffabile Parallelograms, con il nuovo The Soul Of All Natural Things la Perhacs riesce comunque a rinverdire i fasti personali del suo microcosmo poetico e musicale, sempre colmo di impalpabile meraviglia e di vibratile energia, usando la ricerca sui suoni e sulle melodie come strumento privilegiato nell'indagare la spiritualità dell'uomo e la sua ambivalenza al cospetto del creato. Colta nell'ispirazione, sofisticata negli arrangiamenti e sorprendentemente giovane e luccicante, dietro un'ombra di malinconica saggezza, nelle armonie vocali, la scrittura della Perhacs, a sei mani coi produttori-musicisti Fernando Perdomo e Chris Price e avvalendosi dei contributi eccellenti di Julia Holter e Ramona Gonzales (Nite Jewel), è nel complesso all'altezza delle aspettative. La title-track, in apertura, coglie bene l'essenza di quanto appena detto: una corale angelica si apre su un fraseggio acustico, come una danza ciclica delle stagioni, orlata di filamenti elettronici appena percettibili, per chiudersi laddove era iniziata dopo una sbrigliata fuga di flamenco nel cuore stesso del brano. Sull'idea di una arcadia delicata e solenne giocano pure River Of God con quella ritmica leggermente tribale, in punta di tamburi e Freely, le onde setose della melodia, ricamata di melismi soffici ed educati, sul picking e gli allunghi di piano, mentre verso atmosfere più nostalgiche e autunnali ripiegano la lineare Children, sonetto da camera per chitarra, piano e archi e Daybreak pop acustico in bello stile west-coast anni 70.
Ad aggiungere passo e variazioni rispetto alle atmosfere cantautorali fin qui delineate contribuiscono poi episodi come Intensity con le sue sfumature jazz-funk, la ritmica febbrile e irregolare, dove si avverte in filigrana il tocco di Julia Holter o la sincopata e sferzante Immunity; When Things Are True Again, invece, proietta l'immaginario musico-filosofico della Perhacs in una veste pop barocca e anni 80 (synth e drum machine) nella prima parte per sciogliersi poi in una seconda più corale e pastorale. Anche se ad affascinare ancora di più, col passare degli ascolti, sono la mistica leggiadria di Prisms Of Glass, accavallarsi di controcanti in una tenue polifonia e l'epilogo-summa affidato a Song Of The Planets, fra echi indistinti di classica contemporanea, new age ed elettronica, due brani che vagheggiano l'immagine finale e cangiante di una nuova (e forse persino più giovane) Linda Perhacs.
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