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R Recensione

7,5/10

Athene Noctua

Others

Lost and found in salsa tricolore, parte II. La prudenza del recensore modello vorrebbe che per un debut album, ancor peggio se gravato dal peccato imperdonabile d’essere di produzione nostrana, non si sprecasse mai tanto incenso quanti sono i suoi reali meriti, anche qualora questi sommergano, in misura pressoché schiacciante, gli inevitabili difetti. Tale modus operandi dell’un po’ per tutti un po’ per nessuno ha, nell’ordine, inasprito la battaglia tra poveri del sottobosco indie, lasciato insoddisfatti addetti al settore ed affamati gli ascoltatori, creato un grottesco e posticcio egalitarismo che non è mai stato così lontano dall’esistere fattivamente. Quando, poi, si ha la fortuna di imbattersi in dischi come “Others”, l’etichetta va a morire con l’Agnese: agli Athene Noctua, e alla caparbia Mondovì che, in un angolo, pare aver assorbito tutte le radiazioni del Canalese noise, fagocitandole e cucendo loro in sartoria un nuovo ed inedito vestito, vanno plausi e meriti del caso.

Vero punto di forza del quintetto pedemontano è l’estrema malleabilità di una sezione ritmica mai invadente, per quanto estremamente espressiva. Un brano come “Boreal Lotus”, il cui arpeggio romantico va a parare dalla parte dei Fog In The Shell meno caparbi, viene letteralmente trasformato dal tocco jazzato di Simone Rossi (roba che se ci fosse una tromba di mezzo sembrerebbe quasi una versione gilmouriana dei Drift di “Memory Drawings”) e dall’insistito monocorde dell’omonimo Cristiano: il suo preciso ed inesorabile battito motorik permette anche a “Suppah Suppah Magic Soup” di sfilacciarsi in epilettiche stringhe impro senza, per questo, perdere la presa salda su una bussola space rock oriented. Dal cilindro strumentale della band saltano fuori continue sorprese: la più gradita è la samba prog di “New Mumba”, mortifero jingle per tastiere giocattolo divaricato in un ventaglio di chitarre stoner, ma notevoli sono anche la concréte – tra ultimi Jennifer Gentle e ultimissimi Julie’s Haircut – di “Karlheinz’s Flight” e il fischiettare anfetaminico di “Bananatras”, raggrumato in sordidi scambi matematici e magistralmente concluso à la “Wish You Were Here”.

Tanti riferimenti, anche in campo interno (“Mole Garden”, a tal proposito, deve un po’ troppo a quel magnifico ibrido indie-kraut che è “After Dark, My Sweet”), ma un suono già maturo e – nemmeno troppo paradossalmente – personale. In attesa spasmodica di gustarseli dal vivo, diamo i voti: per cui sarebbe un 7, ma crepi l’avarizia.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Utente non più registrato alle 10:45 del 6 gennaio 2015 ha scritto:

Album completamente strumentale che spazia con intelligenza e personalità nella miglior musica dei ’70; legami con il prog, il kraut, lo space rock, ma anche jazz, filtrati dall’esperienza del post rock.

Il 2014 ha regalato almeno tre dischi di valore: quello dei Junkfood (che il 10 gennaio 2015 suoneranno al C.S.O. Django di Treviso), quello di Fabio Zuffanti e questo.

Acquistato direttamente dalla DGR ad un ottimo prezzo, omaggiato del cd dell’Inverno della civetta.

Utente non più registrato alle 10:51 del 6 gennaio 2015 ha scritto:

...tre dischi italiani di valore...

Marco_Biasio, autore, alle 11:49 del 6 gennaio 2015 ha scritto:

L'Inverno Della Civetta ti è piaciuto?