Motorpsycho
Angels and Daemons at Play
Non mi emoziono facilmente. Non sono il tipo. E non perché lo trovi disdicevole, chiariamoci. Anzi, in determinati contesti, credo che lesternazione di forti sentimenti interiori sia il risultato perfetto, la meta insperata a cui sempre dovrebbe tendere la creazione di unopera darte degna di questo nome. Semplicemente, mi ci vuole un po per entrare in questottica. Provo spesso godimento, felicità, soddisfazione, ma lemozione o, per meglio dire, lemozionalità che conduce dritta nelle braccia della lacrima, ecco, lo confesso, quello è un vizio che raramente viene a bussare alle mie porte. Per dire. A lungo mi sono chiesto cosa significhi amare un gruppo, adorarne le gesta, percepire con esso una compiuta simpatia. Non ho trovato la risposta, perché di risposte ne esistono in potenza centinaia, e tutte probabilmente adattate alla singola sensibilità. Fatto sta che, appunto verificabile statisticamente, in ogni disco dei Motorpsycho anche il più vecchio, il meno bello, il più prolisso, il più manieristico, il più diluito, il meno diretto cè almeno un brano capace di traghettarmi nella condizione emotiva di cui sopra. Un brano che scuote e squassa, che turba e delizia, che stupisce e commuove, ritagliandosi per sempre il suo posto privilegiato nella mente, nellanimo di chi ascolta.
Parlare di Angels And Daemons At Play in maniera dettagliata richiede uno sforzo circostanziato, un sublime e criogenico distacco narrativo che è difficile acquisire al primo colpo. Meglio gettare la patata bollente a Fabio, che quegli anni li ha vissuti in prima persona, attivamente (la vecchiaia può non essere sempre una colpa ). Quegli anni, sì ma quali anni? Nel 1997 il frame work di unintera generazione è andato in frantumi, i cocci impossibili a riunirsi, gli entusiasmi e le depressioni di inizio decennio cominciano a stemperarsi nel calderone di quella medietà espositiva che, salvo i classici e professionali colpi da biliardo, saranno la cifra stilistica portante del Nuovo Millennio, sempre più scavenger e sempre meno explorer. I Motorpsycho non sono più, da tempo, la favola norvegese che fa tuonare i fiordi e bruciare i poli, ma un power trio di fama europea se non internazionale dalla caratura stilistica impressionante e dalla prolificità inarrestabile. Un disco allanno, singolo o doppio, se non di più (in questo periodo nasce anche la creatura The International Tussler Society), unincalcolabile produzione mini, un tour dietro laltro. Gli inarrestabili degli anni 90 sono loro. E davvero bisogna essere inarrestabili, per concepire Angels And Daemons At Play, dopo lo sforzo concettuale di due mastodonti come Timothys Monster, 1994 (il loro primo, immarcescibile doppio), e Blissard, 1996.
Ogni tanto mi sento vecchio come i sassi di Matera. Tipo quando mi chiedono: com'è guidare una 127? Oppure: ma davvero i primi dischi li hai ascoltati su un Penny? Adesso arriva anche Biasio a chiedermi: ma tu hai visto i Motorpsycho dal vivo nel 2000? E va bene, è vero. Ma ero giovane anche io all'epoca, che diamine. Penso di esserci andato con la mia fidata Uno 45 verde metalizzato, un bolide che presta servizio ancora oggi. Perchè la qualità, cari i miei sbarbatelli con l'iPhone che si blocca ogni sei mesi, dura a lungo. I Motorpsycho nel 2000 erano devastanti quanto quelli di oggi. Quel concerto durò più di tre ore, Håkon Gebhardt suonò praticamente in mutande e credo perse una decina di chili di peso ed alla fine, uscendo dal locale in un bagno di sudore pronti a beccarci una polmonite, io e gli altri spettatori restammo storditi per una buona mezz'ora. In quei quasi duecento minuti di musica successe di tutto, i brani suonati divennero delle lunghe jam in gran parte improvvisate, l'aria che si respirò in quel locale sotterraneo era talmente freak che un noto criticò musicale affermò di aver visto sul palco Ray Manzarek e John Cipollina. I Motorpsycho dell'epoca avevano appena minacciato la svolta pop di Let Them Eat Cake ma quella sera fu chiaro a tutti che non ci sarebbe stata nessuna svolta, e che quel disco (insieme al successivo Phanerothyme) sarebbe stato solo una parentesi (probabilmente condizionata dall'influenza dell'amico Lars Horntveth e dei suoi Jaga Jazzist) nella loro multiforme discografia. Anche i pezzi tratti da quei dischi (Going To California, Upstairs/Downstairs, Walking With J.), triturati e fusi nel magma sonoro (motor)psychedelico, subirono una trasfigurazione, una dilatazione che li rese irriconoscibili e assimilabili al resto della loro produzione.
I momenti migliori di quella serata furono l'omaggio a Moondog di All Is Loneliness e quello (devastante) agli MC5 di Black To Comm, ma io ero lì sopratutto per ascoltare qualcosa dal mio disco preferito dei Motorpsycho, Angels And Daemons At Play: dopo circa un'ora partirono gli accordi di Like Always, ovvero quel filo conduttore che lega i Motorpsycho Sonic Youth di Blissard a quel periodo pop di cui si diceva. Ecco, questo sì che mi fa sentire vecchio: quelle ripartenze, quei cori, quel basso plettrato, sono elementi che se hai vissuto la tua gioventù negli anni '90 non puoi dimenticare. Questo erano i Motorpsycho in quegli anni: l'ultimo baluardo post-grunge, l'ultima possibilità di amare un distorsore per chitarra sentendosi ricambiati.
Richiamati da un pubblico stordito, il primo bis fu Walking On The Water e il palco letteralmente esplose, al punto che la band decise sul momento di dilatare la coda del brano per un tempo interminabile. E in chiusura, risalirono sul palco per la terza volta sulle note di una versione enorme di Pills, Powders And Passionplays, ovvero il mio brano preferito dei Motorpsycho, sintesi perfetta di rock, psichedelia e pop, dalla struttura semplice ma incredibilmente dinamica, la dimostrazione rassicurante che quella svolta pop, se anche fosse diventata definitiva, sarebbe stata di livello assoluto. Pills, Powders And Passionplays l'avrò ascoltata un milione di volte, senza contare le volte in cui ho ascoltato la versione jazz pubblicata in collaborazione con i Jaga Jazzist qualche anno dopo (ovvero, la Norvegia ai suoi massimi livelli). Mancarono all'appello tante perle estratte da quello straordinario disco: una bordata come Heartattack Mac avrebbe rischiato di farci crollare il palazzo addosso, Stalemate avrebbe concesso un bel momento di tregua. E poi certo, se avessero suonato anche Un Chien D'Espace (i Pink Floyd in trincea durante un bombardamento) e magari anche In The Family sarebbe stato il massimo. Probabilmente, da allora, non sarei neanche invecchiato.
Non si può avere tutto dalla vita, daltronde, e lattività dei Motorpsycho presa in sé e di per sé è già avere tanto, tantissimo. Io non lho mai sentito suonare dal vivo, Angels And Daemons At Play spero mi venga data la possibilità il prossimo maggio, quando i nostri centauri scandinavi caleranno ancora in Italia per tre date in promozione allultimo Still Life With Eggplant , ma ciò non è mai stato dimpedimento. Il riff tagliente su corde contigue, doppiato dallo xilofono, di Un Chien DEspace, incendio psych i cui fantasmi vagolano in una memorabile sezione centrale in crescendo space e sostanza jazz, la dissoluzione noise di Heartattack Mac (vengano il muro di suono e la conseguente sordità), il boogie hard rock di Walking On The Water, le floreali fragranze indie rock di Starmelt / Lovelight (quella voce, di Snah, così fragile ed insicura e così bella) e gli anni 90 che erompono da ogni poro di Like Always, le sciabole taglienti che dilaniano Timothys Monster ed il terrificante intontimento hard-motorik che attanaglia Sideway Spiral, Pt. 2, mandandola in loop continuo ed infinitamente ricorsivo, laddove la Pt. 1 era stata lieve e paradisiaco nascondino in stratificate distorsioni shoegaze
Poi arriva il Momento, lAttimo, la frazione di secondo in cui si avverte, chiaramente, che qualcosa sta per cambiare. Una coltre di tastiere entra sottotraccia, gonfiando una danza pianistica sulle punte, un grappolo di note sfiorate e debolmente aggrappate luna allaltra. La staffilata di batteria è potente, destabilizzante, un tuffo al cuore che srotola il tappeto rosso al nervoso pizzicato di Snah ed allascesi fuzz del giro di raccordo. Sembra idilliaca, la family di cui comincia a cantare Bent Sæther su di un tappeto ritmico minimale, il suo basso plettrato e quel solo, unico giro di piano che si attorciglia in sottofondo ma nel chorus elettrico/acustico, che si propende con sapienza dincastro e meccanismo melodico mozzafiato verso la seconda strofa, sono ben altre parole a colpire, nel segno. Quel basso, ancora, distorto, sublime, gli anni 90 del post-grunge e dei Placebo, dellindie rock e dei Pixies, del tardo hardcore e dei Fugazi, poi le sfumature cambiano: il brusco stacco con vista assolo scoperchia larmadio pieno di scheletri. Eccole, le parole!, i padri che abbandonano i figli, la stasi e lincapacità di qualsiasi movimento Know its running in the family / Into the setting sun / Its running in the family / Waving loaded guns, sussurra Sæther, mentre lassolo di Snah va a stridere e a deturpare, in un sistema di sublime dissonanza consonante, prima del trionfo conclusivo: una nota, che invece di dissolversi si spezza, si frantuma, fa esplodere tuttattorno schegge, sinterrompe con violenza.
In The Family mi fa piangere come un vitellino, ogni volta. È il potere di chi nulla chiede e tutto dona.
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