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R Recensione

10/10

Motorpsycho

Angels and Daemons at Play

Non mi emoziono facilmente. Non sono il tipo. E non perché lo trovi disdicevole, chiariamoci. Anzi, in determinati contesti, credo che l’esternazione di forti sentimenti interiori sia il risultato perfetto, la meta insperata a cui sempre dovrebbe tendere la creazione di un’opera d’arte degna di questo nome. Semplicemente, mi ci vuole un po’ per entrare in quest’ottica. Provo spesso godimento, felicità, soddisfazione, ma l’emozione o, per meglio dire, l’emozionalità che conduce dritta nelle braccia della lacrima, ecco, lo confesso, quello è un vizio che raramente viene a bussare alle mie porte. Per dire. A lungo mi sono chiesto cosa significhi “amare” un gruppo, adorarne le gesta, percepire con esso una compiuta simpatia. Non ho trovato la risposta, perché di risposte ne esistono in potenza centinaia, e tutte probabilmente adattate alla singola sensibilità. Fatto sta che, appunto verificabile statisticamente, in ogni disco dei Motorpsycho – anche il più vecchio, il meno bello, il più prolisso, il più manieristico, il più diluito, il meno diretto – c’è almeno un brano capace di traghettarmi nella condizione emotiva di cui sopra. Un brano che scuote e squassa, che turba e delizia, che stupisce e commuove, ritagliandosi per sempre il suo posto privilegiato nella mente, nell’animo di chi ascolta.

Parlare di “Angels And Daemons At Play” in maniera dettagliata richiede uno sforzo circostanziato, un sublime e criogenico distacco narrativo che è difficile acquisire al primo colpo. Meglio gettare la patata bollente a Fabio, che quegli anni li ha vissuti in prima persona, attivamente (la vecchiaia può non essere sempre una colpa…). Quegli anni, sì… ma quali anni? Nel 1997 il frame work di un’intera generazione è andato in frantumi, i cocci impossibili a riunirsi, gli entusiasmi e le depressioni di inizio decennio cominciano a stemperarsi nel calderone di quella medietà espositiva che, salvo i classici e professionali colpi da biliardo, saranno la cifra stilistica portante del Nuovo Millennio, sempre più scavenger e sempre meno explorer. I Motorpsycho non sono più, da tempo, la favola norvegese che fa tuonare i fiordi e bruciare i poli, ma un power trio di fama europea – se non internazionale – dalla caratura stilistica impressionante e dalla prolificità inarrestabile. Un disco all’anno, singolo o doppio, se non di più (in questo periodo nasce anche la creatura The International Tussler Society), un’incalcolabile produzione “mini”, un tour dietro l’altro. Gli inarrestabili degli anni ’90 sono loro. E davvero bisogna essere inarrestabili, per concepire “Angels And Daemons At Play”, dopo lo sforzo concettuale di due mastodonti come “Timothy’s Monster”, 1994 (il loro primo, immarcescibile doppio), e “Blissard”, 1996.

Ogni tanto mi sento vecchio come i sassi di Matera. Tipo quando mi chiedono: com'è guidare una 127? Oppure: ma davvero i primi dischi li hai ascoltati su un Penny? Adesso arriva anche Biasio a chiedermi: ma tu hai visto i Motorpsycho dal vivo nel 2000? E va bene, è vero. Ma ero giovane anche io all'epoca, che diamine. Penso di esserci andato con la mia fidata Uno 45 verde metalizzato, un bolide che presta servizio ancora oggi. Perchè la qualità, cari i miei sbarbatelli con l'iPhone che si blocca ogni sei mesi, dura a lungo. I Motorpsycho nel 2000 erano devastanti quanto quelli di oggi. Quel concerto durò più di tre ore, Håkon Gebhardt suonò praticamente in mutande e credo perse una decina di chili di peso ed alla fine, uscendo dal locale in un bagno di sudore pronti a beccarci una polmonite, io e gli altri spettatori restammo storditi per una buona mezz'ora. In quei quasi duecento minuti di musica successe di tutto, i brani suonati divennero delle lunghe jam in gran parte improvvisate, l'aria che si respirò in quel locale sotterraneo era talmente “freak” che un noto criticò musicale affermò di aver visto sul palco Ray Manzarek e John Cipollina. I Motorpsycho dell'epoca avevano appena “minacciato la svolta pop” di “Let Them Eat Cake” ma quella sera fu chiaro a tutti che non ci sarebbe stata nessuna svolta, e che quel disco (insieme al successivo “Phanerothyme”) sarebbe stato solo una parentesi (probabilmente condizionata dall'influenza dell'amico Lars Horntveth e dei suoi Jaga Jazzist) nella loro multiforme discografia. Anche i pezzi tratti da quei dischi (“Going To California”, “Upstairs/Downstairs”, “Walking With J.”), triturati e fusi nel magma sonoro (motor)psychedelico, subirono una trasfigurazione, una dilatazione che li rese irriconoscibili e assimilabili al resto della loro produzione.

I momenti migliori di quella serata furono l'omaggio a Moondog di “All Is Loneliness” e quello (devastante) agli MC5 di “Black To Comm”, ma io ero lì sopratutto per ascoltare qualcosa dal mio disco preferito dei Motorpsycho, “Angels And Daemons At Play”: dopo circa un'ora partirono gli accordi di “Like Always”, ovvero quel filo conduttore che lega i MotorpsychoSonic Youth” di “Blissard” a quel periodo “pop” di cui si diceva. Ecco, questo sì che mi fa sentire vecchio: quelle ripartenze, quei cori, quel basso “plettrato”, sono elementi che se hai vissuto la tua gioventù negli anni '90 non puoi dimenticare. Questo erano i Motorpsycho in quegli anni: l'ultimo baluardo post-grunge, l'ultima possibilità di amare un distorsore per chitarra sentendosi ricambiati.

Richiamati da un pubblico stordito, il primo bis fu “Walking On The Water” e il palco letteralmente esplose, al punto che la band decise sul momento di dilatare la coda del brano per un tempo interminabile. E in chiusura, risalirono sul palco per la terza volta sulle note di una versione enorme di “Pills, Powders And Passionplays”, ovvero il mio brano preferito dei Motorpsycho, sintesi perfetta di rock, psichedelia e pop, dalla struttura semplice ma incredibilmente dinamica, la dimostrazione rassicurante che quella svolta pop, se anche fosse diventata definitiva, sarebbe stata di livello assoluto. “Pills, Powders And Passionplays” l'avrò ascoltata un milione di volte, senza contare le volte in cui ho ascoltato la versione “jazz” pubblicata in collaborazione con i Jaga Jazzist qualche anno dopo (ovvero, la Norvegia ai suoi massimi livelli). Mancarono all'appello tante perle estratte da quello straordinario disco: una bordata come “Heartattack Mac” avrebbe rischiato di farci crollare il palazzo addosso, “Stalemate” avrebbe concesso un bel momento di tregua. E poi certo, se avessero suonato anche “Un Chien D'Espace” (i Pink Floyd in trincea durante un bombardamento) e magari anche “In The Family” sarebbe stato il massimo. Probabilmente, da allora, non sarei neanche invecchiato.

Non si può avere tutto dalla vita, d’altronde, e l’attività dei Motorpsycho – presa in sé e di per sé – è già avere tanto, tantissimo. Io non l’ho mai sentito suonare dal vivo, “Angels And Daemons At Play” – spero mi venga data la possibilità il prossimo maggio, quando i nostri centauri scandinavi caleranno ancora in Italia per tre date in promozione all’ultimo “Still Life With Eggplant” –, ma ciò non è mai stato d’impedimento. Il riff tagliente su corde contigue, doppiato dallo xilofono, di “Un Chien D’Espace”, incendio psych i cui fantasmi vagolano in una memorabile sezione centrale in crescendo space e sostanza jazz, la dissoluzione noise di “Heartattack Mac” (vengano il muro di suono e la conseguente sordità), il boogie hard rock di “Walking On The Water”, le floreali fragranze indie rock di “Starmelt / Lovelight” (quella voce, di Snah, così fragile ed insicura e così bella) e gli anni ’90 che erompono da ogni poro di “Like Always”, le sciabole taglienti che dilaniano “Timothy’s Monster” ed il terrificante intontimento hard-motorik che attanaglia “Sideway Spiral, Pt. 2”, mandandola in loop continuo ed infinitamente ricorsivo, laddove la “Pt. 1” era stata lieve e paradisiaco nascondino in stratificate distorsioni shoegaze

Poi arriva il Momento, l’Attimo, la frazione di secondo in cui si avverte, chiaramente, che qualcosa sta per cambiare. Una coltre di tastiere entra sottotraccia, gonfiando una danza pianistica sulle punte, un grappolo di note sfiorate e debolmente aggrappate l’una all’altra. La staffilata di batteria è potente, destabilizzante, un tuffo al cuore che srotola il tappeto rosso al nervoso pizzicato di Snah ed all’ascesi fuzz del giro di raccordo. Sembra idilliaca, la “family” di cui comincia a cantare Bent Sæther – su di un tappeto ritmico minimale, il suo basso “plettrato” e quel solo, unico giro di piano che si attorciglia in sottofondo – ma nel chorus elettrico/acustico, che si propende con sapienza d’incastro e meccanismo melodico mozzafiato verso la seconda strofa, sono ben altre parole a colpire, nel segno. Quel basso, ancora, distorto, sublime, gli anni ’90 del post-grunge e dei Placebo, dell’indie rock e dei Pixies, del tardo hardcore e dei Fugazi, poi le sfumature cambiano: il brusco stacco con vista assolo scoperchia l’armadio pieno di scheletri. Eccole, le parole!, i padri che abbandonano i figli, la stasi e l’incapacità di qualsiasi movimento… “Know it’s running in the family / Into the setting sun / It’s running in the family / Waving loaded guns”, sussurra Sæther, mentre l’assolo di Snah va a stridere e a deturpare, in un sistema di sublime dissonanza consonante, prima del trionfo conclusivo: una nota, che invece di dissolversi si spezza, si frantuma, fa esplodere tutt’attorno schegge, s’interrompe con violenza.

In The Family” mi fa piangere come un vitellino, ogni volta. È il potere di chi nulla chiede e tutto dona.

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DonJunio 8,5/10
ThirdEye 8,5/10
zagor 9/10

C Commenti

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nebraska82 (ha votato 8,5 questo disco) alle 22:33 del 20 marzo 2013 ha scritto:

Lavoro imponente, in una discografia frastagliata e dispersiva questo e il mostro di timoteo restano due capisaldi intoccabili. Altro che Burzum.....

swansong alle 12:23 del 21 marzo 2013 ha scritto:

Scusa ma i Burzum cosa c'entrano? O forse ho colto male il riferimento...

nebraska82 (ha votato 8,5 questo disco) alle 12:38 del 21 marzo 2013 ha scritto:

Era solo una sciocca battuta, per dire che questo è il meglio uscito dal rock norvegese a mio parere, tutto qui.

swansong alle 12:53 del 21 marzo 2013 ha scritto:

Ah..beh nessuna sciocca battuta comunque! Era solo che il genere così differente non mi aveva fatto cogliere l'aggancio "scandinavo"..

DonJunio (ha votato 8,5 questo disco) alle 20:20 del 21 marzo 2013 ha scritto:

Disco e recensione da favola. PS Il critico di cui si parla immagino sia Maurizio Blatto, ricordo bene quella stroncatura

zagor (ha votato 9 questo disco) alle 18:48 del 10 dicembre 2016 ha scritto:

In The Family la metto in una ideale top 5 della band norvegese, assieme a vortex surfer, the wheel, greener e STG

zagor (ha votato 9 questo disco) alle 13:59 del 27 marzo 2017 ha scritto:

They never cared about anything Anything at all / Anything at aaaaall..ce l'avevo in testa tutto il giorno ieri. Cosa sarebbe la vita senza i Motorpsycho? Non voglio nemmeno pensarci.

Marco_Biasio, autore, alle 22:07 del 27 marzo 2017 ha scritto:

E speriamo rimangano tra noi ancora tanti tanti anni e tanti tanti dischi... Il disco nuovo dovrebbe uscire quest'anno. Il nuovo batterista è nientepopodimenoche mr. Tomas Järmyr. L'ho visto lo scorso luglio in concerto con gli Zu, batterista potentissimo e mostruoso. Chissà cosa tireranno fuori...