Pink Floyd
The Endless River
Era il 1994 quando i Pink Floyd (o meglio ciò che ne rimaneva) commuovevano il mondo con il loro sentito testamento High Hopes, brano di enorme impatto nostalgico ed emotivo posto in conclusione di un album, se non proprio ispirato, almeno dignitoso, epitaffio perfetto di una discografia anche troppo blasonata (The Division Bell, EMI, 1994) e atto finale di una band che nei precedenti quindici anni era stata fin troppo sconvolta con cause legali, defezioni, riunioni e altri avvenimenti fin troppo noti. Con quell'ultimo capolavoro, fiore sulla tomba di un act che come pochi altri ha saputo rendere omaggio al rock d'Albione, il discorso Pink Floyd sembrava doverosamente e giustamente concluso: il treno era arrivato al capolinea, ciò che era da dire era stato definitivamente detto. Animali, muri, pifferai, tagli finali e lati oscuri della luna erano ormai da consegnare una volta per tutte alla storia: tale è la portata dell'ensemble che, nei suoi vari cambi di formazione e virate di sound, ha saputo di volta in volta stupire ed entusiasmare tutti i tipi di ascoltatori, da quelli più esigenti a quelli più casuali, sposando con la precisione dell'alchimista un sound levigato e patinato sul vago modello beatlesiano ad opere di volta in volta in grado di offrire sempre qualcosa di diverso rispetto al precedente e gettando un ponte tra grande pubblico e critica secondo solo agli stessi scarafaggi di Liverpool. Se nel rock esiste una pietra filosofale, i Pink Floyd l'avevano certamente trovata.
Nondimeno, se il mito non muore, le persone purtroppo sì: nel 2006 viene a mancare tragicamente Syd Barrett, il "diamante pazzo" che ha per primo catapultato i Pink Floyd nell'Olimpo omaggiandoci del più grande capolavoro della band, quel The Piper at the Gates of Dawn (Capitol, 1967) che ha letteralmente stravolto e riscritto i paradigmi di cosa si dovesse intendere con "psichedelia". Le cattive notizie purtroppo non terminano e appena due anni dopo si spegne anche il vero "collante" del sound floydiano in senso stretto, il compianto Richard Wright, ponendo un ulteriore punto fermo alla speranza di una possibile riconciliazione della band (sempre più insistente, specie dopo la breve esibizione in occasione del Live8 nel 2005 che ha visto per la prima volta dopo oltre venticinque anni la formazione classica suonare insieme al completo).
Anno Domini 2014, i Pink Floyd annunciano l'uscita di un nuovo album. Il giudizio del lavoro in sé, non senza una certa supponenza, si può presumere dall'analisi attenta della frase, dal soggetto all'oggetto. I "Pink Floyd"? Nel 2014, sei anni dopo la morte di uno dei membri storici e l'ostinato rifiuto, mai ritrattato, del capriccioso (o coerente?) bassista/cantante Roger Waters, cosa possiamo identificare con "Pink Floyd"? A questa domanda si riallaccia direttamente la questione del "nuovo" album. Come fa una band fisicamente assente per metà a rilasciare un "nuovo" album?
Entrambe le domande trovano risposta, che non è certo delle migliori: con la pretesa di "dare al mondo un canto del cigno dei Pink Floyd", David Gilmour (chitarra e voce) e Nick Mason (batteria) fanno un salto nella soffita di casa Wright e, tra un disco d'oro e una copia d'epoca di Meddle, raccattano i suoi ultimi nastri: degli scarti, in breve. Ed è lavorando su queste rimanenze (eredità degli out-take registrati nelle session di The Division Bell), suonandoci sopra e cucendole tra loro come meglio potevano, avvalendosi di turnisti per completare l'opera, che The Endless River (Parlophone, 2014) vede affannosamente la luce, dopo un'incubazione durata vent'anni.
Chi sono dunque i Pink Floyd di The Endless River? Due uomini e un fantasma, si potrebbe dire. Nonostante tutte queste premesse, il sottoscritto nel momento in cui ha fatto partire la prima traccia di quest'ultima fatica a nome - con un po' di sforzo di fantasia - Pink Floyd, ha fatto un completo reset mentale, cercando di giudicare l'opera per quello che era, sforzandosi in ogni modo di dimenticare chi fossero quei musicisti poco più di quarant'anni fa, con risultati abbastanza soddisfacenti.
The Endless River si propone come un lavoro essenzialmente strumentale (unica eccezione la sorvolabilissima Louder Than Words) imperniata sui nastri ereditati dall'estroso Wright, trasformati non senza un certo impegno in un flusso sonoro rilassante e (nei suoi fortissimi limiti) variegato.
Il sound Floyd si avverte manifestamente, in bene o in male che lo si voglia vedere: fa capolino il tanto famoso slide chitarristico di Gilmour a intervenire sugli ormai celeberrimi tappeti sonori di tastiere, non viene a mancare il drumming regolarissimo di Mason (ormai del tutto prevedibile, privo di ispirazione e banale), insomma, tutto sembra al suo posto, forse anche troppo.
Che questi "nuovi" Pink Floyd sarebbero giunti all'orecchio come una parodia di ciò che furono era stato quasi profetizzato, ma i livelli di autocitazionismo (che rasentano in più punti l'autoplagio) si fanno eccessivamente presenti lungo gli interminabili cinquantatré minuti del full length. Non bastano purtroppo certamente la partenza dal sapore vagamente cosmico che Wright ci regala in Sum oppure i fini arrangiamenti della dolce Anisina, pezzo arricchito da un prezioso intervento di pianoforte e da un discreto (quanto accademico) intervento di sassofono, a dimostrare che i Pink Floyd propriamente detti avevano davvero una ragione per rimettersi in gioco.
Non basta a salvare la situazione (ma sicuramente contribuisce a sottrarre l'intero album alla bocciatura più totale) neppure la terza facciata del fiume infinito, quella che va da The Lost Art of Conversation a Talkin' Hawkin' (dove i nostri non si risparmiano nemmeno un sample di Stephen Hawking, eredità di Keep Talking di vent'anni prima), oggettivamente molto riuscita, tra degli intimisti interventi pianistici (The Lost Art of Conversation) a momenti più groovy (le due Allons-y), in grado di donare piccole gocce di esaltazione diluite in un fiume infinito di noia e indifferenza.
Fa in un certo senso male, e dovrebbe fare ancora più male a chi segue le vicende dei quattro da quarant'anni, sottolineare un terribile aspetto: i pochi momenti buoni, se non ottimi, del full length derivano proprio dagli scarti del compianto tastierista. Le conseguenze che possa avere il fatto che gli avanzi di chi non c'è più suonino più ispirati di chi è con noi le lascio ben dedurre a chi deciderà di leggere.
Un canto del cigno dei Pink Floyd? David Gilmour e Nick Mason hanno preferito che questo cigno morisse emettendo dei versi strozzati e affannati, nel modo più impietoso e insopportabile possibile, preferendo questo al soave necrologio di High Hopes.
Tweetate loro un grazie anche da parte del recensore.
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