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R Recensione

7/10

Sic Alps

Napa Asylum

E se vai a San Francisco ricordati di mettere un fiore tra i capelli. Così recitava un vecchio successo della hippiexploitaion, travisato anche in italiano, da Bobby Solo (!?), negli anni sessanta. E chissà cosa ne pensano quegli irsuti e spigolosi freakettoni dei Sic Alps che proprio nella Baia hanno la loro tana e che col loro nuovo album, Napa Asylum, proprio a quel decennio porgono omaggio. Certo un po’ come pare loro. Nell’unico modo che conoscono. O meglio: nell’unico modo possibile di questi tempi. Nel modo migliore per marcare la distanza di “questi tempi” da “quelli”. Se infatti allora quella musica ero “lo spirito guida di una generazione”, un “lubrificante” per socializzare in maniera universale e disinibita, rompere tabù secolari ed “espandere le coscienze”, oggi è una specie di trip solipsistico, una dipendenza per feticisti più o meno giovani, uno sballo per pochi intimi, da suonare (e ascoltare) con amici fidati, quelli in grado di apprezzarla. Se una volta era smagliante, super prodotta, sbandierata a tutto volume nelle grandi arene e nei mega-raduni, adesso è roba rugginosa, rigata, provata e registrata in camera o al massimo in garage, ed eseguita in locali altrettanto piccoli. Una parabola riduzionista e regressiva che i Sic Alps riassumono perfettamente nei ventidue bozzetti lo-fi del loro ultimo lavoro.

In Napa Asylum il garage escoriato e rumoroso delle origini - Mike Donovan, cantante e chitarrista e il batterista Matt Hartman provengono dal giro degli Hospitals - prende una piega decisamente più californiana e “rootsedelica”. E guarda da vicino i modelli sixties fino a sfiorare la citazione: l’attacco di And Your Bird Can Sing dei Beatles in Ball Of Fame, ad esempio, o il giro di Hey Joe assorbito da Wake Up, It’s Over. Ma anche laddove la band si prende una cospicua dose libertà i rimandi sono chiari seppure rinfrancati dalla facilità e dalla sottigliezza con cui le melodie emergono dalla bruma sgranata della bassa fedeltà: i lacerti byrdsiani di Cement Surfboard, contagiosa fino alla dipendenza, una Jumpin’ Jack Flash suonata da Roky Erickson come Saint Peter Writes His Book, i Grateful Dead macerati via Brian Jonestown in Eat Happy, i Pink Floyd seppelliti vivi che filtrano dalle feritoie della loro cassa di legno (Do You Want To Give $$?).

Altrove, invece, irrobustiscono l’elemento elettrico (grazie anche all’aggiunta di un terzo componente: Noel Von Harmonson) dando vita a lugubri e ciondolanti passeggiate, “fatti” peggio delle scimmie, lungo un cimitero hippie dove, come in un racconto di Stephen King, i caduti del flower power ogni tanto tornano in vita, ma quando tornano non sono più loro e fanno quasi paura: il blues moribondo dagli accenti lennoniani di Ranger, i Blue Cheer zombie di The First Man To Touch California Floor, il fuzz spinato e l’agonia sferragliante di Trip Train.

Quindi, come diceva un’altra canzonetta italo-hippie, mettete pure dei fiori nei vostri cannoni ma, mi raccomando, occhio a non fumarli.

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Voto degli utenti: 7,2/10 in media su 6 voti.
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C Commenti

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paolo gazzola (ha votato 7 questo disco) alle 14:21 del 14 marzo 2011 ha scritto:

Disco adorabile per un gruppo adorabile, sballone, cazzone e onesto come pochi di questi tempi. Recensione - al solito - da manuale.

ozzy(d) (ha votato 8 questo disco) alle 14:00 del 28 dicembre 2011 ha scritto:

ottimo e sicuramente tra i dischi dell'anno, altro che i ciapel clab!

simone coacci, autore, alle 14:52 del 28 dicembre 2011 ha scritto:

RE:

Dai una chance anche a "Goodbye Bread" di Ty Segall, Gull, secondo me ti piace: è l'ideale anello di congiunzione fra questo e l'ultimo dei Black Lips.

ozzy(d) (ha votato 8 questo disco) alle 16:40 del 28 dicembre 2011 ha scritto:

si mi piacciono molto simo, notevoli anche gli jacuzzi boys!!!

simone coacci, autore, alle 18:12 del 28 dicembre 2011 ha scritto:

RE:

Avevo letto il nome nella tua classifica forumistica, in effetti. Ora me li procuro.