Temples
Sun Structures
Chi se non i Byrds, al primissimo dispiegarsi dello scampanellio jangle in Shelter Song? E invece no: loro sono i giovanissimi Temples, nuova rivelazione inglese in materia di psych-pop revivalista. La loro formula si fa largo negli spazi post-indie resi appetibili da band come Tame Impala, per riportare a casa un genere e un'attitudine solo per un attimo alienati dai cugini australiani. Un'operazione coerentissima, per la Heavenly Recordings, che va ad inserire questo Sun Structures in un roster che, con suoni del genere, ci va a nozze. I Temples, dal canto loro, sfornano un esordio che dimostra ancora una volta come certa psichedelia Sixties sia dura a morire: una tavolozza di colori mai esausta.
Il calderone dei riferimenti è estendibile a piacimento (Pretty Things, Tomorrow, Small Faces, Beatles e compagnia bella), ma sarebbe ingeneroso ridurre ad un'operazione nostalgica la personalità, a tratti debordante, del quartetto composto da James Edward Bagshaw, Thomas Edison Warmsley, Sam Toms e Adam Smith. Al contrario: la spigliatezza e la sensibilità in fase di composizione e arrangiamento sono componenti del tutto contemporanee, figlie hi-fi del nostro tempo.
Il punto è che i Temples sanno scrivere pezzi di tutto rispetto, riuscendo ad infarcire il loro pop retro-futurista di tutta una gamma turbinante di effetti (tra flanger, riverberi e distorsori vari), di andature imprevedibili, di un dinamismo che va spesso oltre il semplice buon gusto. Composizioni ricche, dunque, come la cadenzata chicca di Keep in the Dark, che tra striature glam e arrangiamenti sunshine pop non smette per un attimo di ammiccare succinta, o la intrigante Mesmerise, che sfrutta una rigida base motorik per innesti successivi tutt'altro che austeri, tra svolazzi d'organetto e quel motivo di chitarra solista ficcante più che mai, rarefatta infine nei flebili intarsi della coda. Un album che, dopo la carica impressa dalle prime spumeggianti Sun Structures e The Golden Throne, si ritaglia spazi più esoterici in una sezione centrale dove pezzi come Move With the Season (che, sarò pazzo, mi riporta alla mente certe atmosfere esotiche del Toro Y Moi di Underneath the Pine), Colours to Life (col suo loop ritmico e le elevazioni astrali delle tastiere che si sciolgono nel flusso di un freschissimo jingle-jangle acido), e A Question Isn't Answered (con le sue spire ipnotiche che conducono ad un granitico riff hard-psych, tra vocalizzi riverberati e dilatazioni space) allargano considerevolmente lo spettro sonoro.
Ancora una manciata di pezzi (tra cui la fascinosa Sand Dance) e siamo alla fine. Un disco caleidoscopico e divertentissimo, che sfoggia in poco più di 50 minuti un piccolo prontuario moderno di psichedelia pop. Tra chitarre in gran spolvero e creatività a non finire, i Temples hanno sfornato un esordio notevole, che li pone da subito tra le grandi promesse della scena brit contemporanea.
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