Melt Yourself Down
Melt Yourself Down
Ci si riferisce ad un meltdown, nel gergo tecnico, per la peggiore delle catastrofi artificiali possibili: la fusione di un reattore nucleare. È uno sciogliersi, sì, ma fino alle estreme conseguenze: dritto in fondo, a raggiungere l'annichilimento completo. Difettando di isotopi, la via più semplice per disintegrare in questa maniera un organismo umano metodi violenti esclusi rimane il ritmo: l'ossessione del battito, l'esegesi del sudore, l'urlo selvaggio, il cortocircuito. Per un imperativo cogente come Melt Yourself Down, l'uomo è figurina stilizzata, trafitta da una puerile palma ed offerta in sacrificio sullo spigolo di una piramide bidimensionale. Nient'altro oltre a quanto viene fatto intuire: primitivismo, violenza, ricorsività, sporcizia, stortura. Che a mettere in piedi un iradiddio simile, poi, siano pezzi e frammenti di esperienze contingenti e radicalmente diverse, come Heliocentrics e Zun Zun Egui, è l'accendino che riscalda la polvere pirica. Un po' come quello che succede in Tuna, intontito rituale bacchico che violenta il gospel sulle pelli tra voce e fiati si accende quasi un principio di call&response ed ascende al cielo in spirali sottilmente psichedeliche. Se Renzi è un'asfaltatrice, insomma, qui si è a Novaja Zemlja in compagnia della bomba H. E so che tu, Fabio, certo renziano non lo sei...
Posso definirmi Renziano meno di quanto possa definirmi Ava Gardner, ma il giovane boyscout democristiano (pensa che accoppiata, fa quasi rimpiangere il vecchio mafioso piduista) non fa paura a nessuno. Il nostro paese di picconatori, asfaltatori e rottamatori ne ha generati parecchi, gente che conosce il lavoro solo attraverso le metafore, e che dimentica che dopo aver distrutto, picconato e rottamato bisogna ricostruire. E quando se ne accorgono non sanno da che parte cominciare. Comunque qui si parla di musica e non di politica, quindi adesso serve un gancio.
Allora diciamo che questi Melt Yourself Down prima distruggono tutto: l'afrobeat, il funk, il rock psichedelico. Poi però riutilizzano gli stessi ingredienti per creare un suono compatto, che parte dalle rispettive esperienze passate (The Heliocentrics, Acoustic Ladyland, Transglobal Underground) e dalle numerose fonti ispirative (non ditemi che l'omonimia con quel disco di James Chance è un caso) per mettere in atto una spedizione punitiva tribale e ribelle, fatta di afrobeat massacrato di pugni dai Suicide (Fix My Life), jazz sputato fuori da qualche vulcano (Release) o modellato dalla sabbia del deserto (Tuna sembra una versione hard dell'ethio-jazz di Mulatu Astatke), doppiette basso-voce da infarto (We Are Enough) e momenti di assoluta libertà creativa (Camel). Un caos afro-punk-jazz simile a quello proposto qualche mese fa dai Goat, ma dotato di un controllo e di una consapevolezza maggiori. E soprattutto una gioia per i muscoli, liberi una volta tanto - di sprigionare sudore e acido lattico senza vergogna.
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