R Recensione

7/10

Royal Headache

High

Sono tanti quattro anni di distanza tra un album e l’altro per un gruppo punk i cui dischi non superano mai la mezz’ora, ma gli australiani Royal Headache sono punk a modo loro, tanto che spesso sono state scomodate, per descriverli, etichette del tutto aliene da quella dimensione musicale e antropologica (da power pop, e vabbe’, a soul, e non senza una ragione). Sono, soprattutto, un gruppo meticoloso. Ossessivo, pare, nella metodica ricerca della melodia da parte del leader Shogun.

Il precedente album eponimo (uscito tra 2011 e 2012 per tre etichette diverse, la francese XVIII Records in Europa) mostrava una band esplosiva, capace di concentrare in schegge di due minuti pezzi killer, mai ruvidi e sciatti, e ritoccati in studio il giusto per non perdere visceralità senza sembrare, in compenso, fighetti. Difficile, d’altronde, che succeda, se alla voce c’è, appunto, lui: Shogun canta per lo più d’amore, dando autenticità alle parole più trite, e creando la strana impressione che sopra a quegli accordi ci stia cantando per la prima volta, stia improvvisando, cercando, e poi trovando, ma dopo ancora abbandonando, o, al contrario, ma con pari probabilità, dando l’idea che la ricerca melodica sia stata talmente prosciugante da averlo costretto a lasciarne solamente una traccia.

Spesso i pezzi si muovono stranamente storti, pur nella loro brevità, con finali di gorgheggi che rimandano davvero, piuttosto, a un’attitudine black, o con ritornelli che evaporano, appuntamenti mancati, strofe epiche ripetute però una sola volta (al secondo giro si salta; il terzo giro, ovviamente, non c’è: vd. la spettacolare “Another World”). Da cui un effetto, nonostante la potenza trascinante e l’energia della sezione ritmica, di malinconia e di cose che si perdono.

Rispetto al debutto aumenta la varietà: se i primi (eccellenti) quattro pezzi in scaletta sono in totale continuità con gli apici del primo disco, lo fanno comunque sfoggiando una cura maggiore al suono (l’organo di “Need You”, la struttura di “My Own Fantasy”, il piglio anthemico con arpeggi sottopelle di “High”); nella seconda metà, poi, entrano in gioco ulteriori novità, dal garage ‘70 di “Garbage” ai ritmi rallentati di “Wouldn’t You Know” (desertica ballad d’altri tempi) e “Carolina” (roots, Springsteen, Neil Diamond e Real Estate elettrificati assieme) . Chiude, con un titolo che la descrive, la fulminea e grezza “Electric Shock”: forse il pezzo più autenticamente punk (il primo?) degli australiani.

Nell’esordio tutto filava a perfezione. Qua, soprattutto nella parte centrale (6, 7), si sente un calo. Ma i Royal Headache restano una band tanto defilata quanto centrale.

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FrancescoB alle 18:05 del 25 ottobre 2015 ha scritto:

Recensione che sottoscrivo in pieno, per un disco che è una salutare scarica di adrenalina. Ma che possiede molto altro, come giusta indica il Target. Quoto in modo particolare la descrizione della voce, anzi direi dello stile vocale, descrizione che trovo azzeccatissima.