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R Recensione

7/10

The Menzingers

On The Impossible Past

Dopo aver ascoltato un disco come “On The Impossible Past” dei Menzingers, due sono le reazioni che possono manifestarsi più frequentemente. Qualche volta anche in rapida successione. La prima è quasi d’imbarazzo, una cosa tipo: “Naa, sono troppo vecchio per queste stronzate” come il poliziotto nero di “Arma Letale 2”. La seconda è un misto di “presa bene” e nostalgia: “Però! Di gruppi che sanno ancora suonare hardcore melodico, punk, emo e derivati ce ne sono rimasti veramente pochi!”. E questo è uno di quei pochi: in compagnia di gente diversa da loro e diversa fra loro come Fucked Up, Touché Amoré, Frank Turner o Titus Andronicus.

Più o meno la stesse cose che deve aver pensato Brett Gurewitz quando ha detto: “Questi ragazzi suonano il vero punk-rock, quello con cui io stesso sono cresciuto. Sono dei songwriter molto dotati e sono felice di dare loro il benvenuto nella famiglia Epitaph”. E lui, fondatore dell’etichetta e storico chitarrista dei Bad Religion, solitamente un po’ di occhio per queste cose ce l’ha.

“On The Impossible Past” è il loro terzo album, il debutto con la nuova casa discografica dopo la vasta eco di popolarità e riconoscimenti che ha incensato il precedente “Chamberlain Waits”. E potrebbe essere quello della definitiva consacrazione. Costruito come una sorta di concept, di picaresco romanzo di formazione sull’essere adolescenti a Scranton e dintorni, o meglio sul ricordarsi com’era essere adolescenti. Perché il protagonista e voce narrante di quelle vicende, la sua amica, amante, ragazza mancata di allora, una cameriera di nome Casey (teneri questi due versi dedicati a lei: “You waited tables/ and i waited for your shift breaks”), gli amici e i personaggi che fanno capolino o irrompono tra un brano e l’altro, sono ormai adulti, o meglio nell’anticamera dell’età adulta. Quando realizzi che la cosa più bella del realizzare qualcosa (la prima scopata, il primo amore, sposarsi e metter su famiglia, diventare uomini, diventare “qualcuno”) forse era proprio l’attesa. Li sentiamo sperduti, perduti di vista, confusi, lontani. È “il passato impossibile”, appunto, quello che si vive col senno del poi, quando cominci a capire che la festa è finita ancor prima di cominciare e a te non ti avevano nemmeno invitato, ma che forse la vera festa (e l’essenza dell’essere punk) era proprio quella: non essere invitati e fare festa lo stesso. Il tutto senza stare troppo a guardarsi l’ombelico, senza piangersi addosso, con la giusta gradazione di rabbia, commozione, ironia (“and i’m pretty sure that this corner of the world/ is the loneliest corner in the whole world”). Ne emerge una galleria di ritratti d’America di provincia, marginale, sfuggente, ubriaca (“cause it was much easier/ that dealing with everything”), perdente, come un teen drama dove gli attori non sono necessariamente ricchi, belli e fortunati in amore.

Su una ritmica aggressiva e compatta ma non priva di rilasci e variazioni (Joe Godino alla batteria, Eric Keen al basso), il jingle-jangle distorto e squillante delle chitarre sono il volano per una grana melodica ora cruda e urlata ora tenera, fluente, melanconica (la voce principale di Greg Barnett si alterna a quella di Tom May). Dal cali-punk più pop e anthemico di “Burn After Writing”, ai riff scroscianti di “The Obituaries” e “Gates” che rinverdiscono i fasti dei Bad Religion di “Suffer”. Dall’ emo/screamo di “Good Things”, “Mexican Guitars” e la toccante “Casey”, a due veri e propri gioiellini come “Sun Hotel”, con quell’andatura ciondolante e alticcia reminescente dei Gun Club, e “Nice Things”, che apre quasi a là Husker Du e poi rompe gli argini con un ritornello grintoso e dilagante stile Green Day pre-“Dookie”. E pazienza se perdono qualche colpetto qua e là (la cantautorale, quasi springsteeniana “Freedom Bridge”) o se il giro chiave di “I Can’t Seem To Tell” ricorda fin troppo da vicino quello di “Today” degli Smashing Pumpkins. Peccati veniali, tutto sommato, per un disco che coglie un importante punto di equilibrio fra accessibilità e dignità estetica, all’interno di un genere musicale che oggi ne ha bisogno come non mai. Per non oscillare schizofrenicamente fra pagliacciate stile Blink 182 ed isolazionismi estremi.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 3 voti.
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Cas 7,5/10

C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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swansong alle 12:57 del 8 marzo 2012 ha scritto:

splendida copertina..

Lezabeth Scott (ha votato 8 questo disco) alle 11:50 del 16 marzo 2012 ha scritto:

Rivelazione! Di punk-core così schietto, puro e melodico se n'era davvero perso lo stampo. Mi piace come il cantante varia le parti vocali, la facilità con cui riesce a scivolare dalle urla grezze a un lamento sconsolato vorrei dire quasi morreysiano. Gran disco. All'estero è stato incensato: 93 (!) di valutazione su Metacritic!

Cas (ha votato 7,5 questo disco) alle 19:17 del 28 luglio 2012 ha scritto:

bellissimo disco, e non sono per niente un patito del genere. pezzi immediati, melodicamente ineccepibili, con quelle inflessioni emo che danno spessore al tutto... un piacere da ascoltare.