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R Recensione

7/10

Titus Andronicus

The Monitor

Noi ai Titus Andronicus avevamo voluto bene da subito. Per il loro punk mescolato a un folk-rock grezzo e appassionato, per la loro assoluta mancanza di fedeltà, per quelle melodie filo-canadesi affogate nelle american roots più zozze, per il loro disperante nichilismo che però trovava sempre un modo vitalistico di esorcizzare le angosce, per le urla selvagge e i mantra avvinazzati, per le loro barbe orrende ed eccessive, per la scrittura intelligente di Patrick Stickles. Perché il loro debutto, “The Airing of Grievances”, non aveva momenti deboli. Li avevamo elogiati, e loro se ne erano accorti, tanto da piazzare nel loro myspace, come descrizione del proprio sound, quella che avevamo dato noi nella nostra recensione (from SdM to New Jersey!). Come facciamo a non volere bene ai Titus Andronicus?

Eppure adesso, dopo l’uscita di “The Monitor”, gliene vogliamo un po’ meno. Questo concept di 65 minuti, che sovrappone a una rivisitazione della Guerra Civile Americana (Monitor era il nome di una corazzata statunitense) la narrazione della vita sconclusionata e disillusa di un giovane di oggi, ambisce a vette più alte rispetto all’esordio, ma, pur rimanendo un buon disco, tende a stroppiare. Su dieci pezzi, cinque superano i sette minuti, l’ultimo raggiunge addirittura i quattordici (che è: Meat Loaf?!): eccessi, per un disco che rimane uno sporco mix di radici folk-rock e furia punkettona, in una fusione dei due livelli che sembra riprodurre quella tra i due piani di lettura del concept (colto/fancazzista, diciamo). Eccessi, perché il lavoro è a tratti prolisso e verboso, con alcuni brani diluiti da samples vocali, bordoni ‘shoegaze-friendly’, assoli non-necessari, cori iper-ripetuti. Si poteva strafare di meno, insomma.

Strafare di meno, dico, perché, a ben vedere, la volontà di costruire, piuttosto che canzoni canoniche, vere e proprie suite, ma in un ambito sonoro così distante – per tradizione – da strutture composite, conferisce al disco una solennità epica e un po’ mitizzante che è anche il suo fascino, oltre che la vera differenza rispetto a “The Airing of Grievances”. Nel tentativo di scoprire le radici yankee e di constatare se la guerra sia davvero finita (naturalmente no, si scoprirà alla fine: «it’s still us against them» è il leitmotiv del disco), “The Monitor” trasuda americanità da ogni poro, e in modo massiccio: uno Springsteen sbronzo incontra, sullo sfondo della Costituzione, il primo inkazzato Conor Oberst (“A More Perfect Union”); una recitazione di Walt Whitman da parte di Craig Finn dei The Hold Steady chiude una tirata di nove minuti che si muove tra Beach Boys, boogie-woogie (!) e shit-gaze (“A Pot In Which To Piss”); fisarmoniche, sax, violini, piano, chitarre stra-distorte incappano in melodie nostalgico-tradizionali per poi immergersi nell’alcol; tutto incontra tutto. Quando i Titus Andronicus non eccedono fino alla noia, esaltano.

Così, ad esempio, nella splendida epitome USA di “Four Score And Seven”, 8’38’’ divisi in due: prima un indie-folk stonato, tra intermezzi di armonica, momenti corali arcade-firiani, trombe à la Okkervil River e passaggi bandistici, poi concitazione distruttiva e anthem strepitati a pieni polmoni. Delizia. Ma è uno dei pochi momenti del disco in cui i Titus Andronicus sanno reggere per intero la lunga distanza. Bene anche la scalpitante “Richard II”, o l’esplosione di “No Future Part III”, mentre appaiono come puri divertissement i sing-along molto live-style e casinisti di “Titus Andronicus Forever” e “...And Ever” (hillbilly con sassofono!).

Poi, i punti di contatto col primo disco restano moltissimi. Che il produttore sia sempre Steven McMahon lo si coglie già dalla sporcizia dei suoni, che i Pogues siano sempre sullo sfondo emerge da alcuni momenti più country-punk (i violini e le voci ubriache di “Theme From Cheers”), che tutto ciò rientri in una scena americana ben precisa lo si deduce dal duetto con Jenn Wassner dei Wye Oak (la romantico-strafatta “To Old Friends And New”), che la penna di Stickles si confermi tra le più interessanti e lucide d’oltreoceano lo evidenziano molti testi (leggetevi la lunghissima tirata di “The Battle Of Hampton Roads”). Sono sempre loro, insomma: ma oversize.

E perciò la sensazione è di avere tra le mani una fedele bibbia dell’America di adesso, ipertrofica anche nelle sue manifestazioni antagonistiche, con le stelle-e-strisce in bella vista anche quando si schiuma di rabbia disincantata e si vorrebbe distruggere tutto, compresi se stessi: la giovane foga no-fi che omaggia una tradizione musicale imponente. E se rimane vero che “The Monitor” stroppia, è anche vero che, per quello che si proponeva di essere (un disco, tutto sommato, generazionale americano), non poteva non farlo. Un po’ meno, ma vi vogliamo ancora bene, Titus.

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Voto degli utenti: 5,7/10 in media su 6 voti.

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otherdaysothereyes (ha votato 6 questo disco) alle 15:35 del 2 aprile 2010 ha scritto:

Decisamente meno intrigante dell'esordio, ma piacevole.