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R Recensione

6/10

Torche

Harmonicraft

Sarebbe sommariamente semplice, ripartendo dalle parole spese allora per il modesto “Songs For Singles”, circoscrivere la parabola discendente dei Torche ad un momentaneo appannamento, ad uno stop da iperprolificità, ad un peccato di gioventù. Molti, se non altro, si accontenterebbero della scusante. Gli altri, in prima fila coloro che apprezzarono lo psicologicamente remoto esordio del 2005, riconosceranno invece una minima risalita di china che conferma, d’altro canto, quanto – da “Meanderthal” in avanti – aveva cominciato a farsi strada nell’insieme dei giudizi singoli: che il quartetto di Miami fosse un gruppo dallo standard qualitativo medio (laddove non palesemente mediocre), ben lontano dalle fattezze luccicanti fatte illusoriamente intravedere allora.

Harmonicraft” abbandona, parzialmente, l’intenzione di aderire ad un paradigma stradaiolo di dubbio gusto, rockettino annacquato di terza categoria, per imbracciare nuovamente la distorsione. Evaporata da un pezzo la componente più selvaggia, stoner negli assalti e doom nei rallentamenti, a galla rimangono gli scheletri di un approccio che fa dell’irruenza e dell’impatto immediato le sue carte vincenti. Interessante è, a questo proposito, sottolineare come, a dire il vero, mai i Torche siano stati un gruppo veramente “hard”, nell’accezione tecnica e solipsistica del termine, ma un collettivo dove ogni singola canzone, come su una linea di montaggio, veniva scomposta e suonata all’unisono. È scorretto parlare, anche solo lateralmente, di punk? Non quando, sotto la scorza di ritmiche al fulmicotone, le chitarre dispensano oscurità nelle strofe e palese rifrangenza nei refrain, allineandosi quasi a dei Jawbox anfetaminizzati (“Walk It Off”), a dei Queens Of The Stone Age con la morte nel cuore (riusciti i salti di armonia in “Skin Moth”), a vecchi glamster col trucco che cola e con le capigliature in disordine (“Kiss Me Dudely”), architettando infidi trucchetti power pop seppelliti sotto una coltre di chitarre massicce (“Letting Go”) e schegge di ariosa melodia disintegrate da stoccate hard-blues e detonazioni tonitruanti (“Kicking”).

Lo schema, tuttavia, non cambia di una virgola. Anche adesso, arrivati al quarto disco. Imperturbabile al passare del tempo ed alle circostanze esterne. Tutti i limiti di un’autoreferenzialità che si prepara a divenire palese (“Sky Trials” è fatta della stessa sostanza con cui era stata prima costruita “Hideaway”, e prima ancora “Little Champion”, e a fare i puntigliosi “Rockit” prima di tutte) emergono quando si tratta di elevare il gioco ad altezze maggiormente impegnative, sfiorando da vicino soluzioni diverse, complesse. Naufraga “Reverse Inverted”, che lascia intendere tempi dispari muovendosi su di un riff pigramente striato di noiosi artefici psichedelici, non convince il pomp magniloquente di “Solitary Traveler” – un peccato, perché l’idea di uno stoner-gaze paesaggistico era allettante! –, le plasticità di “Snakes Are Charmed” (cassa in quattro quarti, basso funky, chitarre impegnate in un duello di aggiunte e sottrazioni su successivi power chord) sono affossate da un vocalism inadeguato e, quando si torna a fare i duri, ci si arena sempre nel comodo stereotipo del doom sabbathiano (“Looking On”). Pare, in poche parole, di risentire pezzo per pezzo “Meanderthal”, con la sola aggiunta di una grande title-track incisa sul filo del rasoio, fraseggiata al limite del math ed immersa in umori finalmente tetri.

Ne prendiamo atto.

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