Arctic Monkeys
Suck It And See
"She looks as if she's blowing a kiss at me
and suddenly the sky is a scissor
sitting on the floor with a tambourine
crushing up a bundle of love"
Eroi del rock, ultimi e insperati salvatori del beat UK, poeti sbarbati che guardano al mondo con affascinata lucidità, profetici giudicanti dei tempi moderni.
Gli Arctic Monkeys sono tutto ciò e anche l’esatto opposto : di certo non si può negar loro il merito di aver rimpinguato le aride fontane emozionali del rock targato anni zero con delle fluorescenti ondate di poetica underground (leggi tra le righe : alto coefficiente di disincanto, sentimento condiviso da molti più ragazzi di quanto si possa credere).
Un capolavoro imprescindibile, un seguito senza eccessivi cali di tensione, un terzo album dall’andamento incerto. Questo, in soldoni, il resoconto qualitativo del percorso artistico degli arctic monkeys, nativi di Sheffield, lungo otto anni di carriera.
Un percorso senz’altro non scontato ne tantomeno privo di curve a gomito, visto che le aspettative ad ogni nuovo LP crescono in maniera esponenziale di pari passo alla popolarità delle loro hit più diffuse e che altrettanto velocemente e numericamente si moltiplicano le penne dei critici pronte a far esplodere al primo errore raffiche di inchiostro corrosivo in faccia al disorientato volto di Alex Turner.
Così “Suck It and See” si appresta ad essere un pò quel disco destinato a cambiare le sorti del gruppo, perché esaurite le fasi interlocutorie, chiusi i licei e assorbite le sbornie post feste milionarie, è probabilmente giunto il momento di scegliere su quale piatto della bilancia far pesare il carico più grave : eterna adolescenza o evoluzione ? Pur con la consapevolezza che alla loro età è possibile correggere il tiro senza troppi effetti collaterali nel giro di un paio d’anni, magari sfruttando a dovere delle outtakes mal digerite dal fortunato produttore di turno (vedi gli strokes, che ancora in fase promozionale del disco attuale stanno già promuovendo quello successivo).
Cosa resterà di questi arctic monkeys ? Di sicuro resterà molto di più di quanto resta attualmente delle band a loro coetanee, disperse in live noiosamente ripetitivi giocati sulla suspense in attesa degli encore e in dischi buoni soltanto a riempire le tracklist di futuri (ma non remoti) “Best Of”.
Spesso l’errore di qualche frangia superficiale della critica musicale figlia dell’usa e getta internettiano, è quella di considerare il disco migliore di una qualsiasi band come termine di paragone al di la di qualsiasi “se” e qualsiasi “ma”.
Errore fatale, a mio parere. Errore, che difficilmente riuscirà a valorizzare un qualsivoglia sforzo compositivo.
Perché, se nel 2011 qualcuno ancora è lì fuori ad aspettarsi che Alex Turner torni sbarbato ed adolescente o meglio che lo resti per sempre, senza soluzione di continuità impegnato a produrre in serie hit alcoliche e deviate come un Fonzie che sui nostri schermi non invecchierà mai, beh, allora vuol dire che non siamo interessati alla musica, ma ai suoi derivati.
Cioè consideriamo talmente profonde e imprescindibili talune emozioni sprigionate da precise modalità di scrittura delle canzoni da porci con veemente e asociale sgarbo nei confronti di qualsiasi tentativo di successione.
Non ci sarà mai più un nuovo “Whatever people says that…” non perché l’autore è incapace di scrivere un’altra dozzina di canzoni così valide, ma perché un artista come qualsiasi altro essere umano matura nuove esperienze, convinzioni, batoste e fantasmi nel contempo di una significativa variazione delle proprie esigenze di vita, che lo spingono per natura a trascrivere la proprio vita dentro un nuovo lessico artistico.
Se un autore da essere poco più che vergine, diventa un amante che colleziona 20 donne diverse a settimane, come possiamo aspettarci da lui un sincero e toccante lamento per chitarra e voce che narra dell’insofferenza tipica di chi si sente emarginato?
Questo potrebbe farlo un barbuto folkie (cit) che anche a fronte di un conto in banca a sei zeri non rinuncerebbe mai a vivere nella sua baracca in legno ai piedi di un ruscello, proponendo ai fans adoranti la solita solfa agreste.
Danno tutti addosso alla band perché si sta lasciando affascinare da scintillanti strascichi di rock classico, ma è un fattore relativo, un puro divertissement che è fortemente ravvisabile in due sole tracce, peraltro riuscitissime, anche se rigorosamente ancorate a dei cliché citazionisti (Brick by brick e Don’t sit down ‘cos i moved your chair), che si insiste a considerare come blandi e prive di idee, mentre al contrario chi scrive li considera delle ottime applicazioni da parte di studenti innamorati della propria materia.
E bastano due pezzi un po’ su di giri a far urlare allo scandalo ? Ad accusare di corruzione Josh Homme ?
E allora mi spiegate perché a distanza di 14 anni, il disco più scandaloso degli U2, ovvero il “Pop” prodotto do Howie B è ancora quanto di meglio fatto dalla band nel post “Achtung baby”, cioè negli ultimi 20 anni ?
La verità è che oggi non sappiamo aspettare, non sappiamo concedere un repeat in più nemmeno alla nostra band preferita, perché se lo facessimo – in questo caso specifico – ci saremmo resi conto che le ultime cinque canzoni di questo disco sono autentici gioielli, quanto di meglio offerto dai tempi dell’esordio. E la canzone citata all'inizio vale un intero disco.
Tweet