Editors
The Weight Of Your Love
Avevo vaticinato, a seguito delle prime dichiarazioni sul disco: Addio anche agli Editors. Poi è venuta la dipartita del chitarrista Urbanowicz (se uno che ti scrive il riff di Munich se ne va per divergenze artistiche cè da temere). Non cè da stupirsi allora se mi sono avvicinato a The Weight of your love solo a distanza di un mese dalluscita.
The Weight si apre con dei violini sinuosi. Oddio, nei prossimi 3 minuti potrebbe accadere di tutto. Le dichiarazioni parlavano di chitarre acustiche e nuove direzioni. Mah, stiamo a sentire. La traccia di apertura sfocia così in uno stomp farcito di chitarroni. Smith che canta come Matthew Bellamy provoca inquietudine nellindie kid che risiede in me.Al virus arena rock non si scappa. Dopo aver contagiato pazienti più o meno prestigiosi, è il turno degli Editors.
Panico sul giro di basso alla Muse di Sugar, infatti il risultato finale non è così distante dalle ultime fatiche (per lascoltatore) del trio inglese. Quanto meno gli Editors conservano un minimo di buon gusto. Il singolo "A Ton Of Love" diciamolo, non è da buttar via pur impallidendo al confronto coi predecessori; epica allU2 seconda maniera, ritornello in cui affiorano addirittura i Pearl Jam e riff accattivanti. Un bignami di arena rock tutto sommato ben fatto.
What is it this thing called love? No, non è Bon Iver al microfono, è Smith che per la prima volta prova il falsetto. Le doti canore del frontman non si discutono. Il risultato è una ballata, forse quella con la melodia più lavorata del disco, che al netto di uneccesiva leziosità risulta piacevole. Honesty: di nuovo violini sinuosi alla Suede di Everything Will Flow (magari) che non sembrano essere un riferimento troppo buttato a caso per lalbum e una melodia non male eccessivamente caricata di cori. Anche il nome Echo and the Bunnymen potrebbe essere tirato in ballo. Il problema però non sono i riferimenti: lalbum si regge in piedi fino alla 5 traccia poi si accascia.
Indigestione di violini in Nothing che, nomen omen, non ha altro da offrire alle nostre orecchie. Canto squarciagola e coretti in risposta in Formaldehyde, già sentito. Hyena, di nuovo in odore di Muse e il mid-tempo The Phone Book sono il meglio che la coda dellalbum ha da offrire. A tratti riaffiorano le vecchie linee vocali nella piatta e conclusiva Bird of Prey.
Le canzoni sfruttano fino allesaurimento degli hook già non molto attraenti, che alla fine si aggrappano stremati a cariche di cori ed archi. Il ritmo è piatto, ci sono poche scosse. Già dati via il basso ritmico e le chitarre effettate, ora anche i synth sono messi da parte. Campo libero ad archi e strumentazione da rock classico. Per chi si aspettava un lavoro sul livello dei precedenti (al sottoscritto In This Light And On This Evening non era affatto dispiaciuto) la delusione cè.
Dichiaratamente il tema dellalbum è lamore, gli Editors certamente non saranno né i primi né gli ultimi a trattarne, ma le inquietudini (post-) moderne e umane fotografate negli album precedenti hanno tutto unaltro sapore. Fateci caso, perfino le copertine parlano chiaro: il lucido biancore floreale di questultima è lestremo opposto delle arcate buie di The Back Room. E se con An End Has A Start ci si muoveva negli stessi territori, con In This Light And On This Evening il gruppo cambiava solo la veste sullo stesso scheletro revivalista.
Ora, pare che ormai gli Editors abbiano buttato la chiave della stanza sul retro, e non sembra abbiano intenzione di mettersi a cercarla.
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