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R Recensione

7,5/10

Girls

Father, Son, Holy Ghost

Christopher Owens: personaggio tormentato; sedicenne carismatico e fragile, certamente disorientato, e che sfugge al ‘culto’: o meglio, da una gabbia imposta fin dalla nascita. Allontanatosi - non più innocente, ma inetto al mondo e certamente a pezzi -, appena in tempo, dalle costrizioni di una Children of God descritta dallo stesso in questi termini <<imagine being raised in the Taliban: […] being told everybody else in the world is bad, rejecting technology, rejecting medical research, being devoted to God and believing America was evil and the end of the world was coming: all the same principles”>> (da un’intervista al Guardian). Questo, un gruppo religioso che per sua, tragica, logica interna, ha negato l’esistenza del fratello di Owens: ché non trattare una banale polmonite – così vuole il mito – significa anche creare un solco difficilmente ricucibile con la madre, impalcando con lei un’ambivalenza affettiva devastante.

Ma Chris Owens è anche artista senza meta, girovago per mezza Europa – ma stabile per un po’ in Slovenia, sempre con la setta. Poi il ritorno negli USA, la fuga: Amarrillo prima, la California poi. La libertà trovata, e quindi gli entusiasmi e gli eccessi, anche con le droghe; i party interminabili e il contatto con la ‘scena’ punk californiana (e la devozione per i Bad Brains); Ariel Pink (<<is a cornerstone in my foundation because he lit my fuse>> da un’intervista a Pitchfork; seguirà il progetto Holy Shit) e Stanley Marsh 3, a cui farà da assistente. E tra amori ‘drogati’ (uno su tutti, l’eroina) vissuti in stati identitari d’entusiasmo puerile, naif e hippy; il nostro si stabilizza definitivamente, nei pressi di San Francisco, per formare la sua band.

L’enorme successo  – quantomeno da una parte della critica: ché, è il caso di dirlo, i 9 sparati da Pichtfork hanno fatto da scudo e da raccomandazione esplicita allo stesso tempo- dei Girls è però dovuto in egual misura a Chet White - “JR”. Musicista (basso e chitarra, in special modo) e produttore degli album della band, JR da un apporto decisivo in termini di esperienza sul campo (la sua lunga militanza nel sottobosco punk californiano) e nel determinare la ‘vision’ della band: in primis, nella suddivisione dei compiti. A Owens spetta infatti il compito della prima ‘scrittura’, e di regalare spessore alle liriche; a White, la rifinitura degli arrangiamenti e le scelte percussive, nonché (determinante) la produzione. Se in primo momento le registrazioni avvenivano in modo, tutto sommato, artigianale, solo nel 2010 si segnala il primo approccio con uno studio vero e proprio. È infatti con l’Ep "Broken Dreams Club” che i due prendono possesso di un vero e proprio armamentario di strumenti (una intera sezione di fiati, tastiere, ottoni ecc), ad (ab)uso e consumo loro e di altri colleghi coinvolti. Il lavoro è  segnato da un vorticoso scambio di ruoli tra i musicisti, dal quale uscirà un prodotto dal flavour minore rispetto all’esordio - sicuramente in contrasto con la l’essenzialità (garage)pop che contraddistingueva parte del primo full-length. Ciò, non si ripeterà a distanza di un anno, con “Father, Son, Holy Ghost”: scritto per buona parte a ridosso dell’uscita di “Album”, White e Owens stabilizzano una volta per tutte la line-up (<<So, when I say the second album is a band record it is because it is the same people playing an instrument for the entire time>> da un’intervista a quietus.com), introducendo in pianta stabile Darren Weiss (percussioni), John Anderson (chitarra) e Dan Eisenberg (organo e pianoforte).

Se “Album” vantava, in un certo senso, l’aura di disco ‘manifesto’ per una certa scena hipster a stelle e strisce, lo doveva anche al suo tentativo di rielaborare i ‘60s/’70s sotto una gigantesca, ed emotivamente cangiante lente (indie)pop (“Lust for Life”; “Laura”), mantenendo un profilo sì lo-fi e noise pop (“Big Bag”; “Morning Light”), ma senza per questo rinunciare a quei sentimentalismi (come nella brillante ballata “Hellhole Ratface”) e a quelle aperture solari (i Beach Boys, parte della patina) che hanno determinato il discreto riscontro di pubblico e il plauso di un’importante fetta di critica internazionale (come già detto, in primis Pitchfork). Ampia, anche questa volta la strumentazione; e a dar manforte ad un tappeto sonico già di per sé molto strutturato (ma mai troppo cromatico, saturo), anche tre coriste gospel professioniste: ma è una produzione, in sostanza, tutto sommato semplice - dal gusto decisamente analogico - quella di “Father, Son, Holy Ghost" (come lo stesso White ripeterà sovente, nelle varie interviste di quest’anno). Il disco vanta una resa estetica decisamente ‘70s: in cui organetto, assoli e riff di chitarra sontuosi, squarci soul, così come miscele folk-pop e country, non perdono mai le coordinate di un pop ispirato e affettivo.

La  voce inviolabile e apparentemente casta di Owens, cambia leggermente veste rispetto all’esordio, facendosi ancor più empatica e sofferta.  E anche ambigua. Ambiguità che è soprattutto palesata nel songwriting, in cui tutta l’idiosincrasia passata di Owens si riversa nelle liriche. Prendiamo “Alex”: preoccupazioni innocenti si uniscono a volontà di comunicare affetto ad una - non meglio specificata - donna (o uomo?). L’incidere pavementiano, scivola a più riprese in un brillante alt rock di derivazione scandinava (Yamon Yamon: ascoltare per credere). L’andamento  sognante “Just a song” – brano ben strutturato dall’asciutta chitarra folk così come dalla perfetta calibratura delle percussioni nel finale - fa il paio con le reiterate gioiosità amorose di “Saying I love You”.

L’apertura del disco è affidata al (surf) rock di “Honey Bunny”, unico anello di congiunzione (ma in parte, anche “Magic”) davvero ‘diretto’ con “Album”: qui, il travagliato legame materno si mostra come oggetto buono, e prende possesso delle proiezioni di Owens verso l’esterno (“And when I cried/ she would hold me closely and tell me <<everything will be al right>> / that woman loved me; I need a woman who loves me, me me me me me”).

Tre i brani più coraggiosi del disco, possiamo segnalare “Myma”, “Vomit” e “Forgiveness”. La prima (Cat Power nell’aria), è un capolavoro di scrittura e arrangiamento: basso e tastiere impalcano un groove ove sia una chitarra elettrica (sentiere l’assolo) sia l’esecuzione e le liriche (in cui si manifesta, ancora e apertamente, l’implicazione materna nel disorientamento esistenziale e affettivo) del frontman strappano commossi applausi. Nell’apice della monumentale “Vomit”, intrisa già nel titolo di peccato e riferimenti cristiani (“Come il cane torna al suo vomito, così lo stolto ripete le sue stoltezze”), Owens implora un “I need your love” capace di sciogliere ogni cosa; i cori gospel, il fraseggio dell’organetto, l’epicità pinkfloidiana sullo sfondo: ne esce, a parere di scrive, il capolavoro artistico dei Girls.

Il controtempo spettacolare della sezione centrale di “Forgiveness” ( "I can see so much clearer when I just close my eyes") su assolo tagliente à la Neil Young, si dilunga, su un cantato alienato, in un intro Wilco oriented, ma tra l’insipido e il prolisso. La beatlesiana Love Like a River” scorre senza lasciare il segno, così come l’appassionata (e sterile) tristezza di “Jamie Marie”.

Per concludere: il maggior difetto di “Father, Son, Holy Ghost” è quello di risultare troppo sfilacciato al suo interno (nell'economia del disco, un pezzo heavy rock/stoner come "Die" contrasta decisamente): e la resa estetica complessiva ne risente, almeno in termini di compattezza (esponendolo, quindi, al rischio longevità). L’alternarsi - caratteristica in comune con l’esordio, qui ancor più netta - di stili e registri, non donano al disco quella gestalt percettiva necessaria per farlo ergere a status di capolavoro. I colpi da novanta ("Vomit", Myma") le melodie e le atmosfere giuste non mancano, così come l’ispirazione lirica – che sì, di primo acchito, può risultare urticante: ma il tutto è contraddistinto da un dosaggio creativo altalenante, a volte irruento, condensato e ispirato, in altre occasioni quasi assente - o comunque sterile. Disco che vanta, ad ogni modo, una scrittura generale accattivante e minuziosa, così come una produzione e una pulizia del sound, in alcuni casi ‘miracolosa’.

Cosa ci regaleranno, in futuro, i Girls? La risposta, nelle parole di Christopher Owens (tratte dal’articolo di Jhon Freeman per quietus.com): <<I may want to cut back on the rock approach. It could be anything, but it also could not be the next album. It could be an experimental EP and the next album could be a more traditional Girls album>>

V Voti

Voto degli utenti: 7,6/10 in media su 11 voti.
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rael 8/10
Sor90 8/10
creep 9/10
motek 7/10
REBBY 6/10
angelscof 8,5/10

C Commenti

Ci sono 6 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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greensonic alle 10:00 del 30 dicembre 2011 ha scritto:

per me è almeno da 8. Just a song capolavoro

rael (ha votato 8 questo disco) alle 10:47 del 30 dicembre 2011 ha scritto:

recensione chilometrica, il disco è molto piacevole_'

salvatore (ha votato 8 questo disco) alle 14:01 del 30 dicembre 2011 ha scritto:

...e deluso di che, poi? La recensione è perfetta! Mi piace molto sia la presentazione del gruppo (con puntuali rimandi al percorso artistico della band e al primo lavoro) che l'analisi dell'album che prende in considerazione l'elemento, lirico tutt'altro che trascurabile.

Io dell'album ho già parlato ampiamente nel forum, quindi non mi ripeto. Sono piuttosto d'accordo (Jamie Marie però la trovo delicata e sconsolata e molto bella!) anche nella valutazione dei singoli brani. Concludo solo rinnovando il mio interesse e il mio apprezzamento per questo gruppo che credo potrà fare ancora molto...

Un'ultima considerazione per Just a song che se non è la canzone più bella dell'anno, poco ci manca!

Dentro ci sento Nick Drake, qualcosa dei pink Floyd, tanta ispirazione, tanta bellezza e un testo tanto semplice, quanto disarmante e commovente.

4 stelle pienissime!!!

Sor90 (ha votato 8 questo disco) alle 15:17 del 30 dicembre 2011 ha scritto:

Bel disco, le canzoni sono tutte ispirate per me, lo dimostra il fatto che si evolvono passo passo senza per questo risultare spezzate. Apprezzo molto il sound generale, il suono delle chitarre punteggiato dall'organo. A me ricordano i Big Star per certi toni delle chitarre e alcuni riff e le melodie dolci...

La parte centrale è la migliore, "Saying I love you", "My Ma", "Vomit" e la romantica e vagamente soul "Love Like a River" da cinque stelle. "Die" è vero spezza, ma mi piace comunque! Fra i migliori dischi dell'anno. Ottima recensione HyperMauro

hiperwlt, autore, alle 19:03 del 30 dicembre 2011 ha scritto:

x Salvo: uff, allora l'ho scampata! comunque troppo buono per la 'chilometrica' (ha ragione rael, ho esagerato davvero!) x Sor: "apprezzo molto il sound generale, il suono delle chitarre punteggiato dall'organo" condivido decisamente: si sovrappone con notevole efficacia, ogni volta che compare (un esempio tra i tanti: in "vomit" è incontenibile, nel modo in cui amplifica di netto il tiro epico). il suono sì, è davvero brillante, c'è poco da contestare. grazie, gentilissimo Vito!

crisas (ha votato 6 questo disco) alle 0:20 del 2 gennaio 2012 ha scritto:

Parte benissimo ai primi ascolti ma poi lentamente stanca.