Iggy Pop
Post Pop Depression
I've nothing, but my name. Ah, quanta mistica saggezza nella famiglia degli Iguanidi. Avete presente? Quei grossi rettili arboricoli e verdastri del Centro America meridionale, lenti, molto lenti, con la caratteristica cresta sul dorso e un lungo codazzo a conferirgli autorevole savoir-faire. Ecco, se guardo le recenti e pacificate foto promozionali di Iggy Pop, colui che da circa mezzo secolo rappresenta il prodromo del selvatico fancazzismo nel regno animale rockandroll, più che alle spocchiose iguane delle Galapagos penso al venerabile Yoda. Saranno le bellissime rughe che gli tagliano fiere il viso, il corpo-testamento di mille battaglie sul palco e fuori, le cicatrici di una vita accelerata al massimo, Iggy è sempre poesia bruta al fulmicotone, un Tarzan metropolitano che ha visto cose che noi umani stop, un guerriero Kiowa dalla folta chioma, un reduce senza bandiera, un maestro Jedi di mitologica Forza sessuale, un saggio e un gran paraculo. Listinto mi dice che potrebbe essere lultimo, va ripetendo nelle interviste. Al diciassettesimo tentativo luomo si sente (ragionevolmente) stanco, provato, un po malinconico, vuole starsene per i cazzi suoi perché fare un album vero significa dover metterci dentro tutto quello che hai ed in questo momento le mie energie sono molto più limitate rispetto al passato" e dategli torto, ha osservato il meglio della sua generazione salutare per altri mondi sconosciuti, lasciando a questi palcoscenici terreni oramai aridi e virtuali montagne di post-chiacchiere da supermarket della santissima iconografia rock: fosse per me avrei continuato il mio fottuto karaoke di Henri Salvador e Brassens, e affanculo tutti. Non è facile fare il piccolo Iguana ipermuscolareranxeroxsanguinantemoglobinaspruzzosuperdotatonudoecrudo dopo il 68esimo anno, abbiate pazienza. Nemmeno per lultimo highlander dello stage-diving e padrino del Punk (quaranta primavere a novembre, dicono) che al nadir 1969 del sognosfatto flower-power biascicava, molesto e sporco, in my room i want you here, now we're gonna be face-to-face and i'll lay right down in my favorite place assieme a quegli altri indefessi depravati degli Asheton bros. e J.R. Williamson.
Im gonna crawl under your skin, im gonna break into your heart And follow till i get under your skin And the walk is tumbling down And you finally let me in.
Dovè che eravamo rimasti, mr. Osterberg? Prima delle nostalgie berlinesi per lo champagne-on-ice e delle meditazioni sulla fugacità del tempo, chiuso in quel bungalow nel Mojave a scartabellare con Joshua scatoloni pieni di polvere, poesie e documenti sulla lavorazione di Lust For Life, il caro James fu spesso un vestito proto-post-punk buono per tutte le stagioni, talvolta confortevole blue-jeans sdrucito strappone su pettorale umido e ignudo, altre un effimero simulacro chansonnier da pornobalera esistenzialista immolato al mai sopito amore per Sinatra, come nei non troppo fortunati avatar di cantautorato pseudocoheniani Preliminaires e Après. Passatisti esempi dei molteplici Iggy avuti a nostra disposizione, qualcuno migliore, molti peggiori, a loro modo ciascuno libero e necessario allaltro, figli bastardi di decadi lontane e lancinanti, si presuppone irripetibili, giacché lo erano lIggy batterista blues nei Prime Movers, lIggy cagnolino sadomaso Stooges, lIggy che già smoccolava sul Tv Eye, lIggy Lazzaro resuscitato a Londra per grazia ricevuta, lIggy fratello scemo del Thin White Duke e del cinico Lou, lIggy andiamo in treno a Varsavia-Mosca-Berlino: io porto il Mein Kampf, tu i numeri di Playboy e il panino, lIggy compagno di cazzeggio e Nightclubbing dietro il Muro, lIggy che quasi non esce vivo dagli anni Ottanta, lIggy Blah Blah Blah riluttante apocrifo del Lets Dance in spolverino Miami Vice e taglio fighetto, lIggy che negli amichevoli Novanta trova terreno fertile da concimare e si porta a spasso gli alunni Slash e Duff McKagan con il collo extralarge di Henry Rollins. Adesso abbiamo la Post Pop Depression e il deserto del Mojave, silente sovrano nel nulla di sabbia e rocce. Affiorano ricordi sminuzzati e la potente voglia di un ultimo giro nello Sporco della città, diciamo alla maniera definitiva di Pike Bishop e selvaggia compagnia. Se proprio bisogna farlo facciamolo bene, deve essersi detto il Nostro a fine 2014, e proprio in quei mesi ha inizio un produttivo scambio di e-mail con Josh Homme, uno che non aveva mai nascosto al mondo la sua sconfinata adorazione per la vecchiaccia di Detroit. La controproposta del signor QOTSA fu ovviamente immediata, con due mesi di registrazioni (dal 12 gennaio al 9 marzo duemilaquindici) blindati e concentratissimi al Rancho De La Luna, situato nellimmensità del desertico Joshua Tree, e poi sessioni finali presso i Pink Duck Studios di Burbank, in California. A suonare con loro chitarre ora curvilinee ora sfrigolanti, basso, piano, synth, percussioni, tom-toms e backing vocals il rosso ex Kyuss chiama il fido e multitasking Dean Fertita e lottimo Matt Helders, labile giovanotto che tambureggia dietro le pelli degli Arctic Monkeys.
Ive shot my gun, ive used my knife This hasnt be an easy life Im hoping for American Valhalla
Cè unaria di persistente, proustiana memoria che adorna, vischiosa e seduttiva, i quarantuno minuti e nove tracce di Post Pop Depression, un autoreferenziale distillato e gioco di specchi con i bei tempi andati, adagiato su testi di senile oscurità e disillusione, di morte e desiderio, fatalità e fallimento. Un solido manufatto à la Homme, che da esperto alchimista e gran volpone della consolle cita-viviseziona il suono wave/post-punk degli Hansa Studios sostituendo ai fumi industriali della Germania Ovest del 1977 il tipico substrato stonerloungepop delle sue produzioni, e allestisce un riuscito punto dintersezione fra giochi di prestigio bowieani (inequivocabilmente evocato nei teatrini wave-pop del sinuoso singolo dalle cadenze surf Gardenia e della persuasiva In The Lobby, che brutalizza i giovani dancing-pricks che leggono gli spartiti alla perfezione ma non sanno più vomitare attualizzando un lodevole post-punk tossico era New Values, e nella strepitosa macchina del tempo art-rock German Days, ottovolante sonico di ciclici riff-killer, ululati baritonali e spettacolare bridge strumentale vampirizzato da una sezione ritmica in stato di grazia) e il classico crooning sotto sedativi di Pop, che va a marchiare un brano quale American Valhalla, insolente incipit China Girl con baricentro di basso squadrato e contagiri kraut, e gli oltre sei minuti dellambiziosa Sunday, scopereccio disco-punk che accoppia Blondie, primi Talking Heads e i Kiss erotomani di I Was Made For Lovin You in una barocca appendice-valzer darchi e sexycori femminili. Break Into Your Heart è invece un piccolo, perlaceo instant-classic che esalta tutto il sofisticato lavoro in studio dello scudiero Homme (il quale, va ricordato per pura cronaca, il 13 novembre scorso non era in Francia con Jesse Hughes soprattutto perché impegnato a lavorare su Post Pop Depression): ombre di sonnambulo vapore synthetico a ricamare sullinnodica teatralità del chorus e di una recalcitrante melodia da The Idiot goticoamericano, talmente istantanea e adesiva che riuscirei a fischiettarla anche suonata in versione mariachi dai Negra y Azul con El Chapo Guzman alla voce. E in effetti lo scherzetto western Vulture che segue da quelle parti va a parare, un Morricone in avaria via Giant Sand sui titoli di coda dun immaginario remake tarantiniano di Vamos A Matar Compañeros. Il decadente e plastico soul/funk Chocolate Drops, penultimo brano feat. il lascivo controcanto del solito Josh, è Curtis Mayfield sequestrato durante una Desert Sessions, ubriaco di noia e tequila, sapientemente arso al sole californiano di palme e cespugli.
Vulture waiting for life to end Hoping to profit, hes nobodys friend.
So far from here Ill have no fear confida infine lIguana nellumorale commiato di Paraguay, che parte sapida ballad corale e finisce a metà con il titolare che sbraita heavy maniaco-depressivo in un imponente, massiccio stop-and-go a testuggine No, Post Pop Depression (forse) non è quel sigillo definitivo che qualcuno poteva auspicare a una carriera larger than life già nel 79. E francamente James Newell Osterberg jr. non ne aveva bisogno. Eppure nella sua traslucida e curatissima imperfezione, che talvolta cincischia in uninsistita patina retromanierista, rimane la miglior via possibile al Pop della Terza Età: se non il più composito e credibile Iggy dai giorni germanici in cui qualche mattacchione un po stronzo lo chiudeva a chiave dentro una cabina telefonica, certamente il più ispirato dalle vigorose prove di Brick By Brick e American Caesar. Si parla di circa 25 anni fa, e in queste settimane le classifiche di vendita (o ciò che ne resta) sembrano aver apprezzato lultima mascherata delleterno revenant di Muskegon: diciassettesimo nella top 200 di Billboard, la prima volta di Iggy nei primi venti Usa, e addirittura un quinto posto nel Regno Unito. Il piccolo Iguana, insomma, sa ancora spezzare il tuo cuore strisciando infettivo sottopelle. Ti meriti un altro giro di champagne-on-ice, Jim: alzeremo in alto i calici alla memoria del greco sullHauptstraße a Schöneberge che ti sfamava con cinque marchi e di quelluomo perso nel tempo seduto al Dschungel di Nürnberger Strasse. Vicino al KaDeWe, così vicino alla fine. Ma oggi, a dir la nuda e cruda verità, la cosiddetta fine non è mai stata tanto lontana e complice.
Yeah, i followed my shadow tonight Out of the light
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