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R Recensione

7/10

Iggy Pop

Post Pop Depression

“I've nothing, but my name.” Ah, quanta mistica saggezza nella famiglia degli Iguanidi. Avete presente? Quei grossi rettili arboricoli e verdastri del Centro America meridionale, lenti, molto lenti, con la caratteristica cresta sul dorso e un lungo codazzo a conferirgli autorevole savoir-faire. Ecco, se guardo le recenti e pacificate foto promozionali di Iggy Pop, colui che da circa mezzo secolo rappresenta il prodromo del selvatico fancazzismo nel regno animale rockandroll, più che alle spocchiose iguane delle Galapagos penso al venerabile Yoda. Saranno le bellissime rughe che gli tagliano fiere il viso, il corpo-testamento di mille battaglie sul palco e fuori, le cicatrici di una vita accelerata al massimo, Iggy è sempre poesia bruta al fulmicotone, un Tarzan metropolitano che ha visto cose che noi umani stop, un guerriero Kiowa dalla folta chioma, un reduce senza bandiera, un maestro Jedi di mitologica Forza sessuale, un saggio e un gran paraculo. “L’istinto mi dice che potrebbe essere l’ultimo”, va ripetendo nelle interviste. Al diciassettesimo tentativo l’uomo si sente (ragionevolmente) stanco, provato, un po’ malinconico, vuole starsene per i cazzi suoi perché “fare un album vero significa dover metterci dentro tutto quello che hai ed in questo momento le mie energie sono molto più limitate rispetto al passato" e dategli torto, ha osservato il meglio della sua generazione salutare per altri mondi sconosciuti, lasciando a questi palcoscenici terreni oramai aridi e virtuali montagne di post-chiacchiere da supermarket della santissima iconografia rock: fosse per me avrei continuato il mio fottuto karaoke di Henri Salvador e Brassens, e affanculo tutti. Non è facile fare il piccolo Iguana ipermuscolareranxeroxsanguinantemoglobinaspruzzosuperdotatonudoecrudo dopo il 68esimo anno, abbiate pazienza. Nemmeno per l’ultimo highlander dello stage-diving e “padrino” del Punk (quaranta primavere a novembre, dicono) che al nadir “1969” del sognosfatto flower-power biascicava, molesto e sporco, “in my room i want you here, now we're gonna be face-to-face and i'll lay right down in my favorite place…” assieme a quegli altri indefessi depravati degli Asheton bros. e J.R. Williamson.

“I’m gonna crawl under your skin, i’m gonna break into your heart…And follow till i get under your skin…And the walk is tumbling down…And you finally let me in.”

Dov’è che eravamo rimasti, mr. Osterberg? Prima delle nostalgie berlinesi per lo “champagne-on-ice” e delle meditazioni sulla fugacità del tempo, chiuso in quel bungalow nel Mojave a scartabellare con Joshua scatoloni pieni di polvere, poesie e documenti sulla lavorazione di “Lust For Life”, il caro James fu spesso un vestito proto-post-punk buono per tutte le stagioni, talvolta confortevole blue-jeans sdrucito strappone su pettorale umido e ignudo, altre un effimero simulacro chansonnier da pornobalera esistenzialista immolato al mai sopito amore per Sinatra, come nei non troppo fortunati avatar di cantautorato pseudocoheniani “Preliminaires” e “Après”. Passatisti esempi dei molteplici Iggy avuti a nostra disposizione, qualcuno migliore, molti peggiori, a loro modo ciascuno libero e necessario all’altro, figli bastardi di decadi lontane e lancinanti, si presuppone irripetibili, giacché lo erano l’Iggy batterista blues nei Prime Movers, l’Iggy cagnolino sadomaso Stooges, l’Iggy che già smoccolava sul “Tv Eye”, l’Iggy Lazzaro resuscitato a Londra per grazia ricevuta, l’Iggy fratello scemo del Thin White Duke e del cinico Lou, l’Iggy andiamo in treno a Varsavia-Mosca-Berlino: io porto il Mein Kampf, tu i numeri di Playboy e il panino, l’Iggy compagno di cazzeggio e “Nightclubbing” dietro il Muro, l’Iggy che quasi non esce vivo dagli anni Ottanta, l’Iggy “Blah Blah Blah” riluttante apocrifo del “Let’s Dance” in spolverino Miami Vice e taglio fighetto, l’Iggy che negli amichevoli Novanta trova terreno fertile da concimare e si porta a spasso gli alunni Slash e Duff McKagan con il collo extralarge di Henry Rollins. Adesso abbiamo la “Post Pop Depression” e il deserto del Mojave, silente sovrano nel nulla di sabbia e rocce. Affiorano ricordi sminuzzati e la potente voglia di un ultimo giro nello Sporco della città, diciamo alla maniera definitiva di Pike Bishop e selvaggia compagnia. Se proprio bisogna farlo facciamolo bene, deve essersi detto il Nostro a fine 2014, e proprio in quei mesi ha inizio un produttivo scambio di e-mail con Josh Homme, uno che non aveva mai nascosto al mondo la sua sconfinata adorazione per la vecchiaccia di Detroit. La controproposta del signor QOTSA fu ovviamente immediata, con due mesi di registrazioni (dal 12 gennaio al 9 marzo duemilaquindici) blindati e concentratissimi al Rancho De La Luna, situato nell’immensità del desertico Joshua Tree, e poi sessioni finali presso i Pink Duck Studios di Burbank, in California. A suonare con loro chitarre ora curvilinee ora sfrigolanti, basso, piano, synth, percussioni, tom-toms e backing vocals il rosso ex Kyuss chiama il fido e multitasking Dean Fertita e l’ottimo Matt Helders, l’abile giovanotto che tambureggia dietro le pelli degli Arctic Monkeys.

“I’ve shot my gun, i’ve used my knife…This hasn’t be an easy life…I’m hoping for American Valhalla…”

C’è un’aria di persistente, proustiana memoria che adorna, vischiosa e seduttiva, i quarantuno minuti e nove tracce di “Post Pop Depression”, un autoreferenziale distillato e gioco di specchi con i bei tempi andati, adagiato su testi di senile oscurità e disillusione, di morte e desiderio, fatalità e fallimento. Un solido manufatto à la Homme, che da esperto alchimista e gran volpone della consolle cita-viviseziona il suono wave/post-punk degli Hansa Studios sostituendo ai fumi industriali della Germania Ovest del 1977 il tipico substrato stonerloungepop delle sue produzioni, e allestisce un riuscito punto d’intersezione fra giochi di prestigio bowieani (inequivocabilmente evocato nei teatrini wave-pop del sinuoso singolo dalle cadenze surf “Gardenia” e della persuasiva “In The Lobby”, che brutalizza i giovani dancing-pricks che “leggono gli spartiti alla perfezione ma non sanno più vomitare” attualizzando un lodevole post-punk tossico era “New Values”, e nella strepitosa macchina del tempo art-rock “German Days”, ottovolante sonico di ciclici riff-killer, ululati baritonali e spettacolare bridge strumentale vampirizzato da una sezione ritmica in stato di grazia) e il classico crooning sotto sedativi di Pop, che va a marchiare un brano quale “American Valhalla”, insolente incipit “China Girl” con baricentro di basso squadrato e contagiri kraut, e gli oltre sei minuti dell’ambiziosa “Sunday”, scopereccio disco-punk che accoppia Blondie, primi Talking Heads e i Kiss erotomani di “I Was Made For Lovin’ You” in una barocca appendice-valzer d’archi e sexycori femminili. ”Break Into Your Heart” è invece un piccolo, perlaceo instant-classic che esalta tutto il sofisticato lavoro in studio dello scudiero Homme (il quale, va ricordato per pura cronaca, il 13 novembre scorso non era in Francia con Jesse Hughes soprattutto perché impegnato a lavorare su “Post Pop Depression”): ombre di sonnambulo vapore synthetico a ricamare sull’innodica teatralità del chorus e di una recalcitrante melodia da “The Idiot” goticoamericano, talmente istantanea e adesiva che riuscirei a fischiettarla anche suonata in versione mariachi dai Negra y Azul con “El Chapo” Guzman alla voce. E in effetti lo scherzetto western “Vulture” che segue da quelle parti va a parare, un Morricone in avaria via Giant Sand sui titoli di coda d’un immaginario remake tarantiniano di  “Vamos A Matar Compañeros”. Il decadente e plastico soul/funk “Chocolate Drops”, penultimo brano feat. il lascivo controcanto del solito Josh, è Curtis Mayfield sequestrato durante una Desert Sessions, ubriaco di noia e tequila, sapientemente arso al sole californiano di palme e cespugli.   

“Vulture waiting for life to end…Hoping to profit, he’s nobody’s friend.”

“So far from here…I’ll have no fear” confida infine l’Iguana nell’umorale commiato di “Paraguay”, che parte sapida ballad corale e finisce a metà con il titolare che sbraita heavy maniaco-depressivo in un imponente, massiccio stop-and-go a testuggine…No, “Post Pop Depression” (forse) non è quel sigillo definitivo che qualcuno poteva auspicare a una carriera larger than life già nel ‘79. E francamente  James Newell Osterberg jr. non ne aveva bisogno. Eppure nella sua traslucida e curatissima  imperfezione, che talvolta cincischia in un’insistita patina retromanierista, rimane la miglior via possibile al Pop della Terza Età: se non il più composito e credibile Iggy dai giorni germanici in cui qualche mattacchione un po’ stronzo lo chiudeva a chiave dentro una cabina telefonica, certamente il più ispirato dalle vigorose prove di “Brick By Brick” e “American Caesar”. Si parla di circa 25 anni fa, e in queste settimane le classifiche di vendita (o ciò che ne resta) sembrano aver apprezzato l’ultima mascherata dell’eterno revenant di Muskegon: diciassettesimo nella top 200 di Billboard, la prima volta di Iggy nei primi venti Usa, e addirittura un quinto posto nel Regno Unito. Il piccolo Iguana, insomma, sa ancora spezzare il tuo cuore strisciando infettivo sottopelle. Ti meriti un altro giro di champagne-on-ice, Jim: alzeremo in alto i calici alla memoria del greco sull’Hauptstraße a Schöneberge che ti sfamava con cinque marchi e di quell’uomo perso nel tempo seduto al Dschungel di Nürnberger Strasse. Vicino al KaDeWe, così vicino alla fine. Ma oggi, a dir la nuda e cruda verità, la cosiddetta fine non è mai stata tanto lontana e complice.

“Yeah, i followed my shadow tonight…Out of the light…”

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Me3cury 6,5/10

C Commenti

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zagor alle 0:14 del 8 aprile 2016 ha scritto:

wow fantastica recensione!! il disco lo riascolto, promesso lol

woodjack (ha votato 7 questo disco) alle 11:51 del 8 aprile 2016 ha scritto:

vero, rece cazzuta, appassionata e scritta benissimo! il disco è ok, raccoglie un po' del meglio dell'Iggy "waver" senza pretendere di essere più di quel che è. Lui è sempre lui, ma con attitudine misurata e quel beato disincanto di chi tra uno sputo e l'altro è arrivato ai 70. Il contorno, ben congegnato, fa il resto. La verità è che Pop da solo si rivela compositore carente, oltre a manifestare una assoluta e cronica incapacità nella gestione della sua vita artistica (e un tempo anche personale). A questo giro, un po' la vecchiaia, un po' i collaboratori giusti, porta a casa un risultato onesto e di classe, una rarità nella sua pluridecennale carriera. PS: a me la produzione anni '90 tra AOR e finto-metal che certa critica ha voluto riabilitare non è mai piaciuta, mentre ho atteso anni il disco di cover francesi arrivato nel 2012, un karaoke che vale mille rockettoni vuoti e cazzari che hanno infestato molti suoi dischi.

Paolo Nuzzi alle 12:13 del 8 aprile 2016 ha scritto:

Scrivi davvero benissimo, complimenti! Con l'iguana solista non è mai scattata la scintilla, gli manca sempre qualcosa o, come dice ottimamente Woodjack, qualcuno (Bowie, ad esempio) che lo guidi, lo segua, gli dia una direzione artistica. Anche dischi proto-punk-metal come American Caesar e Beat'em Up nonchè velleità cantautoriali come Avenue B, mi hanno sempre lasciato tiepido. Sono però curioso di ciò che Homme ha fatto. Ascolterò molto presto.

zagor alle 13:35 del 8 aprile 2016 ha scritto:

beh iggy era già "protopunkmetal" ai tempi degli Stooges, negli anni 90 voleva semplicemente passare alla cassa e proporsi alla generazione grunge e alternative metal come il padrino di un certo tipo di musica e icona e ci riusci' benissimo ( si pensi anche a "lust for life" che divenne il pezzo simbolo di trainspotting)

woodjack (ha votato 7 questo disco) alle 13:48 del 8 aprile 2016 ha scritto:

eh ma Lust for Life era del '77... e gliel'aveva scritta Bowie con American Caesar non c'entra molto... l'icona-Iggy non credo abbia mai subito cali di popolarità presso un certo pubblico, ma perchè si era cristallizzata fortemente grazie agli Stooges e i dischi con Bowie, ciò che ha prodotto dopo non ha aggiunto molto in termini musicali (men che meno storici, ma nessuno si aspettava da lui niente del genere). Quel che dici però è applicabile ai suoi live-act dell'epoca, fondamentalmente uguali a quelli di 30 anni prima, solo con una band di metallari dietro a far un po' di casino, cosa che probabilmente attraeva un certo tipo di pubblico e gli dava la parvenza di attualità.

zagor alle 14:12 del 8 aprile 2016 ha scritto:

beh Iggy negli anni 90 era amatissimo e rispettato, lo trovavi in copertina anche in riviste tipo metal shock lette da un pubblico di età media da liceale lol.....proprio per questo fu preso un suo vecchio brano da mettere in una scena chiave di un film "generazionale" come trainspotting. I suoi dischi all'epoca cercavano di riverniciare il suo lascito stoogesiano, poi chiaro che piacevano di piu' ai rockettari che ai waver.

woodjack (ha votato 7 questo disco) alle 14:37 del 8 aprile 2016 ha scritto:

"beh Iggy negli anni 90 era amatissimo e rispettato, lo trovavi in copertina anche in riviste tipo metal shock lette da un pubblico di età media da liceale lol" >> in fondo stiamo dicendo la stessa cosa quei dischi lì erano funzionali a ringiovanire una immagine e riaffermare una leadership, quasi una paternità storica (per citare Ruggeri: "Punk prima di te"), ma in quanto contenuto musicale... mmm, poteva essere rispettato giusto dai teen-ager. Iggy era così, quando c'era l'aria giusta per "fare Iggy" faceva il solito Iggy (poco importava su quali canzoni e arrangiamenti), quando buttava male piazzava il dischetto più pop (doveva campare anche lui). Dall'80 e per i successivi 20 anni è andato avanti così, in un modo o nell'altro l'importante era rimanere a galla. Con Preliminaries già si cominciava a configurare l'atteggiamento "ma ormai che mi frega, faccio quel che mi piace fare", atteggiamento che l'ha portato a coronare il sogno di un disco da crooner (che aveva da almeno 15 anni) e all'estremo a infilarsi in alcune tracce di Keisha o Kylie fregandosene dell'immagine, dell'arte e di tutto il resto ("mi chiamano, mi pagano, sono Iggy Pop, fanculo" avrà pensato). Neanche in questo disco c'è niente di nuovo o rivoluzionario, ma ci sono le canzoni e un approccio sereno, non più preoccupato. Probabilmente c'è anche la voglia di chiudere una carriera in maniera dignitosa, piuttosto che come caricatura di sè stessi, e se fosse una chiusura non sarebbe mica male.

zagor alle 14:45 del 8 aprile 2016 ha scritto:

ma nessuno dice che "american Cesar" fosse un capolavoro, era un sano disco di rock duro suonato come dio comanda che consolido' la sua icona. Questo si chiedeva a Iggy all'epoca, questo fu in grado di fare.

Paolo Nuzzi alle 15:39 del 8 aprile 2016 ha scritto:

Ma siamo d'accordo su questo, il problema dell'Iggy solista è proprio quello: dopo gli Stooges non ha saputo fare altro che riproporre, in chiave diversa, quel sound, cercando di svecchiarlo e riproporsi come punto di riferimento per una certa generazione, tipo quella grunge, così come gli Stooges l'avevano fatto con il punk, il discorso è che, mentre per Lou Reed l'aiuto Bowiano giovò dandogli la possibilità di costruirsi una carriera di tutto rispetto, con Iggy non fu così, tant'è vero che la cosa iniziò a stargli stretta, specie con "The Idiot", che era 100% Bowie. Ci riproverò con i dischi suddetti, ma, ripeto, non aggiungono davvero nulla a ciò che Iggy aveva ottimamente fatto con gli Stooges prima e i primi due solisti poi.

Totalblamblam alle 20:14 del 8 aprile 2016 ha scritto:

vero ma lou era un songwriter con le palle iggy non lo è mai stato...da qui la sua difficoltà a costruirsi una carriera autonoma. può scrivere delle belle liriche e magari qualche riff ma come artista completo non è mai esistito. non si discute come presenza scenica e importanza sul punk

zagor alle 22:01 del 8 aprile 2016 ha scritto:

vabbè, ovvio che reed e soprattutto bowie erano su un altro piano come songwriter e arrangiatori/produttori.....iggy giocava una partita diversa, negli anni 90 lui e la sua band davano paga a tanti giovinastri grunge o metal..un brano come V:I.P. ad esempio è la Rollins Band meglio della Rollins band stessa....era solo rock and roll, per l'art-rock bussate altrove lol

Totalblamblam alle 14:25 del 9 aprile 2016 ha scritto:

si era solo per rispondere al post di P.N. e ovvio che Iggy alla fine vince facile su metal e grunge anni 90 ( ci voleva poco ghghh) e comunque alla fine la sua carriera da solista passerà alla storia con due dischi arty . mettiti l'animo in pace zapagor

zagor alle 14:29 del 9 aprile 2016 ha scritto:

sono fichi infatti i dischi del 77, "sister midnight" pezzone ad esempio!

Totalblamblam alle 14:31 del 9 aprile 2016 ha scritto:

è da una vita che te lo dico lol

Dr.Paul alle 21:18 del 8 aprile 2016 ha scritto:

incredibilmente sorpreso da questo disco, non c'è niente da fare... si sente la mano di homme e gli altri....molto più giovane e fresca la produzione il sound. largo ai giovani. aria fresca.

Dr.Paul alle 21:22 del 8 aprile 2016 ha scritto:

ah e gardenia è anche smiths - how soon is now.

zagor alle 13:46 del 9 aprile 2016 ha scritto:

è quasi una cover di "Let's dance", giusto un po' modernizzata lol