Neil Young
Le Noise
A differenza di altri padri nobili che ormai hanno preferito far calare il sipario come Bowie o di chi soltanto raramente spedisce cartoline, alla Cohen, Neil Young continua imperterrito a timbrare il cartellino, anche nella fase crepuscolare di una carriera infinita. Ossessionato dalla perfezione formale con cui intarsiare il suo canone artistico (si pensi al maniacale e controverso disegno degli Archivi, finalmente inaugurato), egli ha altresì realizzato nell’ultimo lustro progetti “pronti e via” in base all’umore del momento come i dispensabili “Living with War” o “Fork in the road”. Capitoli cui hanno fatto da contraltare per fortuna i discreti “Prairie Wind” e “Chrome Dreams II”, nei quali Re Luna ha trovato lo slancio per scrollarsi di dosso parte di quella ruggine che per anni gli ha dilaniato l’anima. E chi ama e segue l’uomo dell’Ontario preferisce in fondo saperlo così schizofrenico e intento a sfornare le sue istantanee sul mondo; qualsiasi ulteriore inciampo non farebbe che confermare quella fragilità insita pure in tutte le mille canzoni che ci hanno cambiato la vita.
Inevitabile dunque che anche il nuovo decennio venga bagnato con l’ennesimo manufatto del Loner, “Le Noise”. Titolo pleonastico per chi ha fatto del rumore chitarristico – gli amplificatori giganti nella copertina di “Rust Never Sleeps” ne fanno fede – uno dei cardini del proprio suono, sviscerato anche in sfumature sperimentali e contraddittorie negli anni (dallo smargiasso “Re-ac-ctor” al collage sonico di “Arc” fino alle visioni di frontiera contenute in “Dead Man”) . E francesismo omaggio alla novità di tappa, ovvero la presenza in cabina di regia del québécois Daniel Lanois: per anni membro de facto degli U2, brillante socio di Peter Gabriel e soprattutto colui che ha disseminato magiche iridescenze sulla terza età dell’altro totem mister Z, con magistrali produzioni su “Oh Mercy” e “Time out of mind”.
Su otto composizioni per sola voce e chitarra (elettrica tranne un paio di episodi con la spina staccata), Lanois attua tra questi solchi un certosino e brillante lavoro di effetti e sfumature, tra riverberi e delay imbizzarriti. Ciò conferisce una spazialità inconsueta ai riff sanguigni e alle tipiche melodie del suo illustre connazionale, il quale le rimodella con veementi colpi di scalpello (si ascolti “Sign of Love”, una “Cinnamon Girl” riveduta e in moviola). Già la rocciosa apertura di “Walk with me”, con il suo intricato reticolo garage, restituisce un Cavallo Pazzo tirato a lucido, nonostante la sua Les Paul corra stavolta in solitaria, slittante e nervosa come in “Someone's gonna rescue me”. E non ci si annoia neppure quando un velo di retorica senile avvolge la tirata “Angry world” o gli strazianti accordi di “Love and War”.
Semplicemente senza sbavature è invece il terzetto che chiude l’album. Si parte con “Hitchhiker”, rivisitazione di un inedito dimenticato nel limbo di metà anni 70, un autobiografico abisso di paranoie e droghe, sullo sfondo dei mutamenti dell’immenso continente nordamericano. Si tratta di uno dei sermoni più brutali e apocalittici nell’intero repertorio del Loner, vibrante di tensione vitale e ombre minacciose, nostalgico ma con lo sguardo al presente; la probabile chiusura a fil di gola di un cerchio aperto più di 40 anni fa dalle allucinazioni di “Last trip to Tulsa”. Quindi lo struggente requiem acustico di “Peaceful Valley Boulevard”, in cui un topos tipicamente youngiano (quadretto arcadico sconvolto dal cieco e insensato delirio umano) viene dipinto lambendo vette poetiche che Mr. Soul non toccava da tempo, con i piacevolissimi spettri di “Pocahontas” e “Powderfinger” a vivacizzare la scena. E infine “Rumblin’”, un sibilo pulsante scosso da fulminee cabrate distorte e versi come “When will I learn how to heal?” che sintetizzano l’umore di un reduce – Ben Keith l’ultimo caduto nella sua comunità, RIP – indomabile.
Il miglior congedo possibile e un buon viatico al prossimo viaggio, che in base alla regola dei sei-sette anni sarà presumibilmente in direzione Nashville. La ruggine non dormirà mai, ma con queste mani di vernice la si maschera bene.
Tweet