The Black Crowes
The Southern Harmony And Musical Companion
Nessuno inventa niente, ormai. Certo, hai il tuo bel navigatore GPS con la voce da Tremonti robotico e il savoir-faire di KITT, che può tornarti utile per un giro turistico sulla spiaggia di Capocotta. Tuttavia i romani nel III secolo d.C. già riuscivano a orientarsi tramite un pratico sistema portatile di bicchierini, più “intuitivo” e meno rompiballe. E sempre alle migliori menti creative dell’Impero di Costantino (l’unico tronista d.o.c.) è dovuto l’illustre antenato del famigerato coltellino svizzero, orgoglio nazionale elvetico e di tutti i lentigginosi boy-scout con un manuale delle Giovani Marmotte nello zainetto. Qualche migliaio d’anni in copyright andati a puttane, e gloria eterna al paese del cioccolato fondente e di Heidi: almeno togliete quella bandiera crociata dal feticcio rosso e rimpiazzatela con una lupa, please.
Anche i fratelli-coltelli Chris e Rich Robinson non furono particolarmente innovativi nel 1985, quando dalla natia Atlanta cominciarono a esibirsi con una band di virile blues-sudista chiamata Mr. Crowe's Garden. Accantonati presunti riferimenti esoterici con un minaccioso e perentorio “The Black Crowes”, questi esteti della tradizione con il cuore ben piantato nei Settanta e l’anima affittata al diavolo sull’incrocio della piantagione Dockery intraprendono cocciuti la loro personale rivisitazione rock-blues di Faces, Stones, Jeff Beck e Lynyrd Skynyrd, e grazie alla Def American del pigmalione Rick Rubin pubblicano nel 1990 l’acclamato “Shake Your Money Maker”. Un album multiplatino da cinque milioni di copie, con i fortunati singoli “Hard To Handle” (dell’immenso Otis Redding), “Twice As Hard” e la ballatona da fari spenti “She Talks To Angels” sospinti dalla voce del neo-hippie Chris Robinson, che si candidava come autentico e credibile figlioccio del giovane Rod Stewart (e di Jagger, of course).
“…I've kept secret your superstitions…And all its twisted wisdom that i fell into…Sister can you try and find me?”
Attraversato da una rustica aurea southern-rock fin dal titolo e ancora prodotto dall’ottimo George Drakoulias, il successore “The Southern Harmony And Musical Companion” entra nei negozi nel maggio 1992, rinsaldando il cordone ombelicale che lega il suono di sesso e Jack Daniel’s dei Corvi Neri agli zii Allman Brothers e al chitarrismo spaccone di Gary Rossington. Con sporadiche incursioni heavy dal dinamismo zeppeliniano (“No Speak No Slave”) e il santino del solito Richards infilato nella patta dei pantaloni di velluto (gli amati riff blues di “Hotel Illness”, che aggiornano “Honky Tonk Woman” al tempo dell’osmosi grunge). In “Sting Me” la batteria scolpita di Steve Gorman e le chitarre stradaiole di Rich Robinson e Marc Ford, al posto dell’ex Jeff Cease, iniziano a dialogare tra lussuriosi cori femminili e la roca soulness del selvatico Chris: un torrido e umido hard-blues che insiste dalle parti delle invincibili Pietre Rotolanti epoca ’69\’71, stavolta in zona “Gimmie Shelter”.
Fanno il loro sporco lavoro il single “Remedy” e le sue corali svisate elettriche accompagnate dal basso di Johnny Colt, l’epico sentimentalismo che conosce bene chi è nato nel Sud degli Stati Uniti (l’insinuante ballad “Thorn In My Pride”, con le tastiere di Eddie Harsch a ricamare su bucoliche note folk e poi elettriche in un crescendo gospel), una preghiera laica di viscerale soul (“Sometimes Salvation”) e la potente melodia rock à la Page di “My Morning Song”, luci di un mosaico che non è soltanto un onesto e riuscito cliché dal passato. I Black Crowes dei Robinson Bros. non fanno rivoluzioni né inventano nulla (e neppure il coltellino svizzero, d’altronde), suonano semplicemente l’istinto delle proprie radici e se questo coincide con il buon vecchio rock’n’roll tanto meglio. Perché, come ci ricorda l’acustica “Time Will Tell” di Bob Marley in chiusura, sarà solo il tempo a giudicarci, e a raccontare ciò che siamo nel presente.
“…Time alone, oh! Time will tell…Think you're in heaven, but you're living in hell…”
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